domenica 11 luglio 2010

Un'intervista di Judith Butler ad Haaretz, pubblicata il 20 Febbraio 2010

L'intervista è apparsa in inglese sul sito web del quotidiano israeliano Haaretz, occupando due pagine (1 e 2), ed è stata tradotta da Fedra. Buona lettura.
 
Judith Butler: "Da ebrea, mi è stato insegnato che era un imperativo etico parlare fuori dai denti".
 
La filosofa, professoressa universitaria ed autrice parla del genere, della disumanizzazione degli abitanti di Gaza, e di come i valori ebraici l'abbiano indotta a criticare le azioni dello stato d'Israele.
A cura di Udi Aloni.
 
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La filosofa, professoressa universitaria ed autrice Judith Butler è arrivata questo mese [Febbraio 2010, nota di Fedra] in Israele, durante un viaggio in Cisgiordania, dove doveva tenere un seminario all'Università di Bir Zeit, visitare il teatro di Jenin, ed incontrarsi in privato con amici e studenti. Un luminare del suo campo, la Butler ha scelto di non visitare alcun'istituzione accademica nell'Israele vero e proprio. Nella conversazione che segue, tenuta a New York diversi mesi fa, la Butler parla del genere, della disumanizzazione degli abitanti di Gaza, e di come i valori ebraici l'abbiano indotta a criticare le azioni dello stato d'Israele.
 
In Israele la gente la conosce bene. Il suo nome è apparso perfino nel popolare film Ha-Buah [La bolla - la tragica storia di una relazione omosessuale tra un ebreo israeliano ed un mussulmano palestinese].
 
[Ride] Sebbene disapprovassi l'uso del mio nome in quel contesto. Intendo dire, era molto buffo dire: "Non judithbutlerizzarmi!", ma "judithbutlerizzare" voleva dire dire qualcosa di assai negativo sugli uomini ed identificarsi con una forma di femminismo che era contro gli uomini. Ma non mi sono mai identificata con quella forma di femminismo. Non è il mio modo di essere. Non sono nota per questo. Sembra quindi che mi abbiano confuso con un'opinione radical-femminista, quella che uno attribuirebbe a Catharine MacKinnon o ad Andrea Dworkin, una modalità femminista completamente diversa. Non sto sempre mettendo in discussione chi è un uomo e chi non lo e - e sono un uomo io? Forse sono un uomo [ride]. Chiamami pure uomo. Sono molto più aperta sulle categorie di genere, ed il mio femminismo riguardava la sicurezza delle donne dalla violenza, l'aumento dell'alfabetismo, la diminuzione della povertà e maggiore eguaglianza. Non sono mai stata contro la categoria degli uomini.
 
Una bella poesia israeliana chiede: "Com'è che uno diventa Avot Yeshurun?" Avot Yeshurun era un poeta che ha creato scompiglio nella poesia israeliana. Vorrei chiedere, com'è che uno diventa Judith Butler - specialmente a proposito di Scambi di Genere, il libro che ha così turbato il discorso sul genere?
 
Lo sa, non sono sicuro di saperne dare un resoconto, e penso che turbi il genere in modo diverso, a seconda di come è recepito e tradotto. Per esempio, una delle prime recezioni [del libro] è stata in Germania, e lì, sembrava assai chiaro che i giovani volessero una politica che desse risalto alla capacità di agire, o qualcosa di affermativo che essi potessero creare o produrre. L'idea di performatività - che implicava far esistere delle categorie, oppure creare nuove realtà sociali - era molto eccitante, specialmente per i giovani che erano stanchi dei vecchi modelli di oppressione - anzi, proprio del modello con cui gli uomini opprimono le donne e gli etero i gay.
 
Sembrava che, se tu eri soggiogata, c'erano anche a tua disposizione delle forme di capacità di agire, e che tu non eri solo una vittima, e tu non eri solo oppressa, ma l'oppressione poteva essere la condizione che ti metteva in grado di avire. Certi tipi di risultati inattesi possono emergere dalla situazione di oppressione se hai le risorse ed un sostegno collettivo. Non è una risposta automatica, e non è una risposta necessaria. Ma è possibile. Penso che io inoltre abbia parlato a qualcosa che stava già accadendo nel movimento. Ho dato una formulazione teorica quello che era già stato impresso in me da fuori. Perciò non l'ho realizzato da solo. L'ho ricevuto da diverse risorse culturali e l'ho tradotto in un'altra lingua.
 
Dopo che sei diventata "Judith Butler", noi abbiamo iniziato a sentirti parlare di più degli ebrei e dei testi ebraici. La gente veniva per sentirti parlare del genere, e subito si trovavano di fronte a Gaza ed alla violenza divina. Sembrava come se tu avessi avuto una chiusura sul precedente argomento. C'è un collegemento, un continuo, o si tratta di una nuova fase?
 
Torniamo ancora più indietro. Sono sicuro di averle detto che cominciai ad interessarmi di filosofia quando avevo 14 anni, ed ero nei guai nella sinagoga. Il rabbino disse: "In classe sei troppo loquace. Tu ribatti, e non ti comporti bene. Devi venire a fare un corso individuale con me". Io dissi: "Ok! Grande!" Ero eccitata.
 
Egli disse: "Che vuoi studiare nel corso? Questa è la tua punizione. Ora devi studiare qualcosa seriamente". Pensai che che pensasse che io non ero seria. Gli spiegai che volevo leggere la teologia esistenzialista, concentrandomi su Martin Buber (non ho mai più abbandonato Martin Buber). Volevo indagare sulla questione se l'idealismo tedesco potesse essere collegato al nazionalsocialismo. La tradizione di Kant ed Hegel era in qualche modo responsabile delle origini del nazionalsocialismo? La mia terza domanda fu perché Spinoza fu scomunicato dalla sinagoga. Volevo sapere quello che era accaduto e se la sinagoga era nel giusto.
 
Adesso devo fare l'ebreo: qual era il rapporto dei suoi genitori con l'ebraismo?
 
I miei genitori erano ebrei praticanti. Mia madre crebbe in una sinagoga ortodossa e dopo la morte di mio nonno, ella passò ad una sinagoga conservatrice e poco dopo finì in una sinagoga riformata. Mio padre era sin dall'inizio nelle sinagoghe riformate.
 
Gli zii e le zie di mia madre furono tutti uccisi in Ungheria [durante l'Olocausto]. Mia nonna perse tutti i suoi parenti, salvo i due nipoti [figli di un fratello od una sorella, NdFedra] che vennero con lei nell'auto quando mia madre tornò nel 1938 per vedere chi poteva soccorrere. Fu importante per me. Sono andato alla scuola ebraica. Ma sono andata anche, dopo la scuola, a corsi speciali di etica ebraica perchè ero interessata ai dibattiti. Perciò non ho fatto solo il minimo indispensabile. Penso che per tutto il liceo io abbia continuato gli studi ebraici insieme con la mia istruzione nella scuola pubblica.
 
E mi ha mostrato le foto del Bar Mitzvah di suo figlio, come una buona orgogliosa Madre Ebrea ...
 
Così è stato così fin dall'inizio, non è che io sia arrivata in un posto in cui non ero mai stata prima. Nella mia giovinezza sono diventata molto scettica di un certo tipo di separatismo ebraico. Intendo dire, vedevo che gli ebrei stavano insieme solo tra loro; non si fidavano di nessuno. Se portavi qualcuno a casa, la prima domanda era: "E' ebreo o non è ebreo?". Poi sono entrata in una comunità lesbica all'università, postuniversità, scuola di specializzazione, e la prima cosa che chiedevano era: "Sei femminista o non sei femminista?", "Sei lesbica o non sei lesbica?", ed io pensavo: "Basta col separatismo!"
 
Sembrava lo stesso tipo di politica comunitaria poliziesca. Ti puoi fidare solo di chi è proprio come te, di coloro che hanno firmato un giuramento di fedeltà a quest'identità particolare. E' davvero ebreo costui? Forse non è così ebreo. Non so se è davvero ebreo, magari ha un antisemitismo interiorizzato. Questa persona è lesbica? Penso che forse ha avuto una relazione con un uomo. Che dice questo su quanto genuina era la sua identità? Pensavo di non poter vivere in un mondo in cui le identità vengono sottoposte ad un simile controllo poliziesco.
 
Ma, tornando all'altra sua domanda ... in "Scambi di genere" c'è un'intera discussione sulla melanconia. Qual è la condizione in cui non possiamo affliggerci per altri? Io pensai, in tutta la mia infanzia, che questa era una cosa che si stava chiedendo la stessa comunità ebraica. Ed era anche una questione a cui ero interessata quando venni a studiare in Germania. Il famoso libro di Mitscherlich sull'incapacità di provare il lutto, che era una critica della cultura tedesca postbellica, mi interessava davvero tanto.
 
Negli anni '70 ed '80, nella comunità gay e lesbica, mi divenne chiaro che molto spesso, quando s'interrompeva una relazione, una persona gay non sarebbe stata in grado di dirlo ai suoi genitori - genitori di lui o di lei. Perciò qui la gente passava per tutti i tipi di perdita emotiva che non erano pubblicamente riconosciuti, e che divennero acutissime durante la crisi dell'AIDS. Nei primissimi anni della crisi dell'AIDS, c'erano molti uomini gay che non erano in grado di rivelare che i loro amanti erano prima ammalati e poi morti. Non potevano andare all'ospedale a trovare il loro amante, non potevano chiamare i loro genitori e dir loro: "Ho appena perso l'amore della mia vita".
 
Questo è stato importantissimo per il mio pensiero in tutti gli anni '80 e '90. Ma è anche diventato importante per me quando ho cominciato a pensare alla guerra. Dopo l'11 Settembre, ero scioccata dal fatto che ci fosse un lutto pubblico per molte delle persone che sono morte negli attacchi al World Trade Center, lutto meno pubblico per quelli morti anell'attacco al Pntagono, nessun lutto pubblico per chi lavorava in nero al WTC, e, per moltissimo tempo, nessun riconoscimento pubblico delle famiglie e delle relazioni gay e lesbiche che sono state distrutte dalla perdita di uno dei partner nei bombardamenti. Poi siamo andati in guerra con grande rapidità, perché Bush aveva deciso che il tempo del lutto era finito. Penso che lo abbia detto dopo dieci giorni, che il tempo del lutto era finito ed era ora il tempo dell'azione. A quel punto abbiamo cominciato ad uccidere le popolazioni all'estero senza una chiara ragione. E le popolazioni su cui abbiamo riversato la nostra violenza erano popolazioni la cui immagine non ci è mai apparsa. Non abbiamo avuto nemmeno un necrologio di un trafiletto per loro. Non abbiamo mai udito nulla su quali vite erano state distrutte. E non lo udiamo ancora.
 
Mi sono poi spostata verso un diverso tipo di teoria, che chiede a che condizioni certe vite siano luttuabili ed altre non siano luttuabili o siano inluttuabili. Per me è chiaro che nel conflitto israelo-palestinese e nei conflitti violenti che sono accaduti negli ultimi anni, c'è una luttuabilità differenziale. Certe vite diventano luttuabili nella stampa israeliana, per esempio - assai luttuabili, ed assai valevoli - ed altre sono intese come inluttuabili perché sono intese come strumenti bellici, oppure fuori dal senso di appartenenza che rende la propria vita luttuabile. La questione della luttuabilità ha legato il mio lavoro sulla politica queer, specialmente la crisi dell'AIDS, con il mio lavoro più contemporaneo sulla guerra e sulla violenza, specialmente il lavoro su Israele-Palestina.
 
E' interessante, perché quando è iniziata la guerra di Gaza, non potei resistere a Tel Aviv. Ho visitato a lungo la Galilea. Ed improvvisamente ho capito che molti dei palestinesi morti a Gaza hanno delle famiglie qui, dei parenti che sono cittadini d'Israele. Quello che la gente non sapeva era che c'era un lutto di massa in Israele. Lutto per le famiglie morte a Gaza, un lutto dentro Israele, di cittadini d'Israele. E nessuno nel paese ne parlava, del lutto dentro Israele. Era scioccante.
 
Il governo israeliano ed i media hanno iniziato a dire che tutti coloro che erano stati feriti od uccisi a Gaza erano membri di Hamas; o che erano tutti usati nello sforzo bellico; che i palestinesi li avevano piazzati lì come bersagli, per dimostrare che gli israeliani avrebbero ucciso dei bambini, e che questo era in realtà parte dello sforzo bellico. A questo punto, ogni singolo essere vivente palestinese diventa uno strumento bellico. Stanno tutti, nella loro essenza, od in virtù dell'essere palestinesi, dichiarando guerra ad Israele o cercando la distruzione d'Israele.
 
Così tutte le vite palestinesi che sono uccise o ferite, non sono più intese come vite, non più intese come viventi, non più intese nemmeno come umane in modo riconoscibile, ma sono pezzi d'artiglieria. Gli stessi corpi sono pezzi d'artiglieria. E, ovviamente l'esempio estremo di ciò è il bombarolo suicida, che negli ultimi anni è diventato impopolare. Se questa figura si estende a tutta la popolazione palestinese, allora non c'è più alcuna popolazione umana vivente, e nessuno che viene ucciso lì è piangibile. Poiché ogni palestinese vivente è, per sua essenza, una dichiarazione di guerra, od una minaccia all'esistenza di Israele, od un puro pezzo d'artiglieria, materiale bellico. Sono stati trasformati, nell'immaginario bellico israeliano, in puri strumenti bellici.
 
Pertanto, quando un popolo che crede che un altro popolo è intenzionato a distruggerlo, e vede tutti i mezzi di distruzione uccisi, od un numero straordinario di mezzi di distruzione distrutti, è eccitato, perché pensa che questa distruzione stia acquistando e procurandogli la sicurezza, il benessere, la felicità.
 
E quello che è accaduto da una prospettiva esterna, dei media stranieri, è stato molto interessante per me. La stampa europea, quella statunitense, quella sudamericana, quella dell'Asia orientale, hanno tutte sollevato degli interrogativi sull'eccessiva violenza dell'attacco a Gaza. Era molto strano vedere come i media israeliani hanno sostenuto che la gente di fuori non capiva, che la gente di fuori era antisemita, che la gente di fuori stava incolpando Israele per essersi difeso quando essa stessa, se attaccata, farebbe proprio la stessa cosa.
 
Ma perché Israele-Palestina? Ha a che fare con la tua ebraicità?
 
Da ebrea, mi è stato insegnato che era un imperativo etico parlare fuori dai denti, e parlar fuori dai denti contro la violenza di stato arbitraria. Questo era parte di ciò che ho imparato quando ho studiato la Seconda Guerra Mondiale ed i campi di concentramento. C'erano quelli che avrebbero voluto e potuto parlare contro il razzismo e la violenza di stato, ed era imperativo che potessimo parlare apertamente. Non solo per gli ebrei, ma per qualsiasi popolo. C'era un'intera idea di giustizia sociale che emerse per me dalla considerazione del genocidio nazista.
 
Direi inoltre che quello che è diventato davvero dure per me è che se uno voleva criticare la violenza di stato israeliana - proprio perché da ebreo uno è tenuto a criticare la violenza di stato eccessiva ed il razzismo di stato - allora uno è in un'aporia, perché gli si dice che è o un ebreo con un antisemitismo interiorizzato, oppure sta facendo del vero e proprio antisemitismo. Eppure per me questo proviene da un certo ideale ebraico di giustizia sociale. Ed allora, come posso io assolvere al mio obbligo di ebrea di pronunciarmi contro un'ingiustizia quando, parlando contro l'ingiustizia statale e militare israeliana, sono accusata di non essere un'ebrea abbastanza buona oppure di essere un'ebrea dall'antisemitismo interiorizzato? Questa è l'aporia della mia situazione.
 
Mi lasci dire un'altra cosa sui valori ebraici. Ci sono due cose che ho preso dalla filosofia ebraica e dalla mia formazione ebraica che per me erano davvero importanti ... beh, ce ne sono molte. Per esempio, fare la shiva, ovvero esplicitare il lutto. Pensavo che fosse uno dei più bei rituali della mia giovinezza. Ci sono state diverse persone che sono morte nella mia giovinezza, e c'erano diversi momenti in cui comunità intere si riunivano per far sì che coloro che avevano sofferto perdite terribili venissero raccolti e riportati nella comunità e fosse dato loro un modo di dar nuovo valore alla vita. L'altra idea era che la vita è transitoria, e per questo, perché non c'è un mondo che verrà [l'ebraismo riformato da cui la Butler proviene infatti nega la risurrezione dei morti e ritiene facoltativa la credenza nell'immortalità dell'anima - NdFedra], poiché non abbiamo alcuna speranza in una redenzione finale, dobbiamo prenderci buona cura della vita nel qui ed ora. La vita va protetta. E' precaria. Potrei arrivare a dire anche che la vita precaria è, in un certo senso, un valore ebraico per me.
 
Ho capito qualcosa, attraverso il suo modo di pensare. Un classico errore che la gente faceva con "Scambi di genere" era la nozione che il corpo ed il linguaggio erano statici. Ma ogni cosa è in movimento dinamico e costante; non esiste mai l'originale. In un certo senso ho sentito la stessa cosa con la Diaspora e l'emancipazione. Nessuno dei due è statico. Nessuno è venuto prima dell'altro. La Diaspora, quando era statica, è diventata separatista, è diventata lo shtetl. E quando si è realizzata l'emancipazione, è diventata uno stato etnocratico; è diventata per giunta separatista, una ricostruzione del ghetto. Perciò forse la tensione tra i due, l'emancipazione e la Diaspora, senza scegliere tra l'uno o l'altro, è l'unico modo per tenerci alla larga dall'etnocentrismo. Penso che la mia idea non sia ancora compiutamente formulata. E' legata al modo in cui sentivo che mio nonno era aperto al linguaggio dell'esilio mentre allo stesso tempo era sempre legato alla terra. Rimanendo aperti ad entrambi, emancipazione e Diaspora, potremmo evitare di cadere nell'etnocentrismo.
 
Lei ha una tensione tra Diaspora ed emancipazione. Ma quello che ne penso è forse qualcosa un po' differente. Devo dire innanzitutto, che non penso che ci possa essere un'emancipazione attraverso la fondazione di uno stato che limita la cittadinanza nel modo in cui lo fa ora, sulla base della religione. Pertanto, dal mio punto di vista, ogni sforzo di mantenere l'idea di emancipazione quando non hai uno stato che offre eguali diritti di cittadinanza agli ebrei ed ai non-ebrei allo stesso modo, è fallito. E' fallito.
 
Ecco perché direi che ci dovrebbe essere il binazionalismo fin dall'inizio.
 
O magari anche il multinazionalismo. Magari anche un tipo di cittadinanza indipendente dalla religione, dalla razza, dall'etnia, eccetera. In ogni caso, il punto più importante è che ci sono quelli che palesemente credono che gli ebrei che non sono in Israele, che sono nella Galut [Esilio, NdFedra], debbono davvero ritornare - loro non sono ancora tornati, e pertanto non sono e non possono essere rappresentanti del popolo ebraico. Allora la questione è: che significa trasformare l'idea della Galut nella Diaspora? In altre parole, la Diaspora è un'altra tradizione, una che implica la dispersione senza ritorno. Sono assai critica di quest'idea del ritorno, e penso che il termine "Galut" assai spesso sminuisca le tradizioni della Diaspora all'interno dell'ebraismo.
 
Pensavo che se facessimo un film sul binazionalismo, la scena di apertura dovrebbe essere un incontro del "Primo Congresso Ebraico per il Binazionalismo". Potrebbe essere un incontro segreto in cui tutti noi discutiamo su chi vorremmo che fosse il nostro primo presidente, e gli altri lì mi mandano a scegliere lei - perché abbiamo bisogno di una donna, e dev'essere queer. Ma non solo queer, e non solo donna. Dev'essere la più importante filosofa ebrea d'oggi.
 
Ma, seriamente, lei lo sa, sarebbe stupefacente pensare a quali forme di partecipazione politica sarebbero tuttora possibili con un modello federale di governo. Come un'autorità federata per Palestina-Israele che fosse nei fatti governata da una forte costituzione che garantisse i diritti indipendentemente dall'estrazione culturale, dalla religione, dall'etnia, dalla razza, e dal resto. In un certo senso, il binazionalismo è una parte dell'iter che spiegherà che cosa deve accadere. Ed io sono del tutto d'accordo con lei che ci dev'essere un movimento culturale che superi l'odio e la paranoia e che tiri fuori la questione della coabitazione. Vivendo misti e diversi, accettando il tuo vicino, trovando modi di vivere insieme. E nessuna soluzione politica, di livello puramente procedurale, può avere successo se non c'è un'educazione bilingue, se non c'è modo di riorganizzare i vicinati, se non c'è modo di riorganizzare il territorio, abbattere il muro, accettare i vicini che ti ritrovi, ed accettare che ci sono delle profonde obbligazioni che emergono dall'essere così vicini ad un altro popolo.
 
Perciò concordo con lei. Ma penso che dobbiamo farla finita con l'idea che uno stato deve esprimere una nazione. E che se abbiamo uno stato binazionale, esprime due nazioni. Solo quando il binazionalismo decostruisce l'idea di una nazione noi possiamo sperare di pensare a ciò che uno stato od una comunità politica che davvero offrissero l'eguaglianza potrebbero essere. Non è più la questione dei "due popoli", nei termini posti da Martin Buber. C'è una straordinaria complessità e mescolanza tra le popolazioni ebraica e palestinese. Ci saranno quelli che dicono: "Ok, uno stato che esprime due identità culturali". No. Lo stato non deve occuparsi di esprimere un'identità culturale.
 
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Ma perché usiamo il termine "binazionalismo"? Per me è l'inizio di un processo, non la sua fine. Potremmo dire "multinazionalismo", oppure "soluzione ad uno stato solo". Perché preferiamo usare ora il termine "binazionalismo" anziché "uno stato"?
 
Penso che le gente abbia un ragionevole timore che una soluzione ad uno stato solo ratificherebbe l'attuale marginalizzazione ed impoverimento del popolo palestinese. Che la Palestina sarebbe costretta ad accettare un tipo di esistenza da Bantustan.
 
O viceversa, per gli ebrei.
 
Beh, gli ebrei avrebbero paura di perdere la maggioranza demografica se i diritti di voto venissero dati anche ai palestinesi. Penso che qui ci sia la fondamentale questione del "Chi è questo 'noi'? Chi siamo noi?". La questione del binazionalismo solleva la questione di chi è il "noi" che decide qual tipo di stato è il migliore per questa terra. Il "noi" dev'essere eterogeneo; dev'essere misto. Tutti coloro che sono qui hanno delle rivendicazioni - e le rivendicazioni sono variegate. Esse hanno ragioni di appartenenza legali e tradizionali che sono alquanto complicate. Perciò ognuno dev'essere aperto a questa complicazione.
 
Ora vorrei andare all'ultima parte della conversazione. Oltre tre anni fa, all'inizio della Seconda Guerra del Libano, Slavoj Žižek venne in Israele per tenere un discorso sul mio film Forgiveness [Perdono]. La Campagna per il Boicottaggio Accademico e Culturale d'Israele gli chiese di non venire al Festival Cinematografico di Gerusalemme. Dissero che avrei dovuto far proiettare il mio film - perché gli israeliani non dovrebbero boicottare Israele, ma chiesero a delle figure internazionali di boicottare il festival.
 
Žižek, che era il soggetto di uno dei film al festival, disse che non avrebbe parlato del film. Ma egli chiese: perché non sostenere l'opposizione in Israele parlando di Forgiveness? Loro risposero che avrebbe potuto sostenere l'opposizione, ma non in una sede ufficiale. Non sapeva che fare.
 
Žižek decise di chiederle consiglio. Se ben ricordo, la sua posizione allora era che era d'importanza capitale essere solidali con i colleghi che avevano scelto mezzi di resistenza non violenti, e che era un errore ricevere denaro dalle istituzioni culturali israeliane. Il suo consiglio a Žižek fu di parlare del film senza essere un ospite del festival. Egli restituì il denaro ed annunciò che non sarebbe stato un ospite. Non ci fu alcuna decisione sull'appoggiare o meno un boicottaggio, Per me, all'epoca, il concetto di boicottaggio culturale era una cosa scioccante, un concetto strano. Da allora il movimento è cresciuto molto, e so che ci avete pensato molto. Mi chiedo che cosa ne pensa lei ora, del Movimento per il Boicottaggio, la Distrazione, le Sanzioni (BDS), tre anni dopo quell'evento che creò confusione.
 
Penso che il movimento BDS abbia assunto diverse forme, ed è probabilmente importante distinguere tra esse. Direi che circa sei o sette anni fa c'era un'autentica confusione su ciò che veniva boicottato, su ciò che veniva chiamato "boicottaggio". C'erano alcune iniziative che sembravano dirette contro gli accademici israeliani, i cineasti israeliani, i produttori culturali, o gli artisti, che non distinguevano tra la loro cittadinanza e la loro partecipazione, attiva o passiva, nella politica dell'occupazione. Noi dobbiamo tenere in mente che il movimento BDS si è sempre concentrato sull'occupazione. Non è un referendum sul sionismo, e non prende una posizione esplicita sulla soluzione ad uno o due stati. Ed allora c'erano quelli che cercavano di distinguere tra il boicottare i singoli israeliani dal boicottare le istituzioni israeliane. Ma non è sempre facile sapere come fare la distinzione tra chi è un individuo e chi è un'istituzione. E penso che tante persone negli USA ed in Europa abbiano semplicemente ritirato il loro sostegno, pensando che fosse potenzialmente discriminatiorio boicottare gli individui oppure le istituzioni sulla base della cittadinanza, sebbene molti di coloro che erano riluttanti volevano proprio trovare un modo di sostenere una resistenza non-violenta all'occupazione.
 
Ma ora penso che sia diventato più possibile ed urgente riconsiderare la politica del BDS. Non è che siano cambiati i principi del BDS: non lo sono. Ma ora ci sono dei modi di pensare ad implementare il BDS che tengono in mente il fuoco principale: ogni evento, pratica od istituzione che cerca di normalizzare l'occupazione, o presuppone che la vita culturale "ordinaria" può continuare senza un'esplicita opposizione all'occupazione è essa stessa complice con l'occupazione.
 
Possiamo chiamarla, se vuole, complicità passiva. Ma il punto principale è sfidare quelle istituzioni che cercano di separare l'occupazione dalle altre attività culturali. L'idea è che non possiamo partecipare alle istituzioni culturali che agiscono come se non ci fosse l'occupazione o che si rifiutano di prendere una posizione chiara e forte contro l'occupazione e di dedicare le loro attività a disfarla. Perciò, con questo in mente, noi possiamo chiederci, che cosa significa impegnarsi in un boicottaggio? Sembra che, per quelli di noi che sono fuori, noi possiamo solo andare in un'istituzione israeliana, o ad un evento culturale israeliano, in modo da usare l'occasione per richiamare l'attenzione sulla brutalità e sull'ingiustizia dell'occupazione, ed articolare un'opposizione ad essa.
 
Penso che sia quello che ha fatto Naomi Klein, e penso che abbia aperto un'altra strada per interpretare i principi del BDS. Non posso più venire a Tel Aviv e parlare di genere, filosofia ebraica o Foucault, per quanto possa essere interessante per me; certo no è possibile prendere soldi da un'organizzazione od università od organizzazione culturale che non sia esplicitamente ed attivamente antioccupazione, che agisce come se gli eventi culturali all'interno dei confini israeliani non avvenissero sullo sfondo dell'occupazione, sullo sfondo dell'attacco e della continuazione dell'assedio a Gaza. E' questo sfondo non detto e violento della vita culturale "ordinaria" che deve diventare l'oggetto esplicito della produzione e della critica culturale e politica. Storicamente, non vedo altra scelta, perché sostenere lo status quo significa sostenere l'occupazione. Uno non può "mettere da parte" l'impoverimento radicale, la malnutrizione, i limiti alla mobilità, l'intimidazione e le molestie ai confini, e l'esercizio della violenza di stato sia a Gaza che in Cisgiordania e parlare d'altro in pubblico. Se uno dovesse parlare d'altro, allora uno è pubblicamente impegnato a produrre una sfera di discorso pubblico limitata che ha per scopo la repressione e, pertanto, la continuazione della violenza.
 
Ricordiamoci che la politica del boicottaggio non è solo una questione di "coscienza" per gli intellettuali di sinistra in Israele e fuori. Il punto del boicottaggio è produrre ed attuare un consenso internazionale che chieda allo stato d'Israele di rispettare il diritto internazionale. Il punto è insistere sul diritto all'autodeterminazione dei palestinesi, di por fine all'occupazione ed alla colonizzazione delle terre arabe, di smantellare il Muro che continua l'impossessamento illegale della terra palestinese, ed applicare diverse risoluzioni ONU che sono state sempre ignorate dallo stato israeliano, compresa la risoluzione ONU 194, che insiste sui diritti dei rifugiati del 1948.
 
Pertanto, un approccio al boicottaggio culturale in particolare dovrebbe essere uno che si oppone alla normalizzazione dell'occupazione in modo da portare dentro il discorso pubblico i principi fondamentali dell'ingiustizia in gioco. Ci sono molti modi per articolare questi principi, e questo è dove gli intellettuali sono senza dubbio politicamente obbligati a diventare innovativi, ad usare i mezzi culturali a nostra disposizione per compiere qualsiasi intervento noi possiamo.
 
Il punto non è soltanto quello di rifiutare i contatti e le forme di scambio monetario e culturale - sebbene alle volte siano assai importanti - ma semmai, in modo affermativo, dare il proprio sostegno al più forte movimento antiviolento contro l'occupazione che non solo sostiene il diritto internazionale, ma stabilendo scambi con i lavoratori culturali ed accademici palestinesi, coltivando il consenso internazionale sui diritti del popolo palestinese, ma anche alterando quel presupposto egemonico nei media globali per cui ogni critica d'Israele è implicitamente antidemocratica od antisemita.
 
Certo ha sempre fatto parte della miglior parte della tradizione intellettuale ebraica insistere sulla relazione etica verso il non-ebreo, l'estensione dell'eguaglianza e della giustizia, ed il rifiuto di tacere di fronte a gravi torti.
 
Voglio riferirle quello che Riham Barghouti, del BDS New York, mi ha detto. Ella disse che per lei BDS è un movimento per chiunque voglia la fine dell'occupazione, eguali diritti per i palestinesi del 1948 [ovvero, gli arabi israeliani - NdFedra], e la richiesta morale e legale del diritto al ritorno dei palestinesi. Ella suggerì che ogni persona interessata decidesse quanto dello spettro del BDS fosse pronta ad accettare. In altre parole, il sostegno del movimento di boicottaggio è una decisione continua, non categoriale. Solo, non diteci quali sono le nostre linee guida. Puoi essere d'accordo con i nostri principi, unirti al movimento, e decidere da te sui dettagli.
 
Certo, uno può immaginare un adesivo da automobile con la scritta: "Che parte della 'giustizia' non capisci?" E' certo importante che molti israeliani importanti abbiano iniziato ad accettare una parte dei principi del BDS, e questo può essere un modo per rendere parte dello sforzo di boicottaggio progressivamente più comprensibile. Ma potrebbe essere importante anche chiedere perché mai così tanti israeliani di sinistra abbiano dei problemi ad iniziare una politica di collaborazione con i palestinesi sul problema del boicottaggio, e perché le formulazioni palestinesi del boicottaggio non sono la base di uno sforzo comune? Dopotutto, il BDS ha invocato il boicottaggio fin dal 2005, è un movimento avviato ed in crescita, ed i principi fondamentali sono stati messi a punto.
 
Ogni israeliano può unirsi al movimento, e sarebbe senza dubbio bello che loro fossero in maggior contatto con i palestinesi di come lo sarebbero altrimenti. Il BDS fornisce la rubrica più potente per le azioni in cooperazione tra israeliani e palestinesi. Questo è senza dubbio sorprendente e paradossale per alcuni, ma mi colpisce come storicamente vero.
 
Per me è molto interessante che molto spesso gli israeliani con cui parlo dicono: "Non possiamo collaborare con i palestinesi perché non vogliono, e non li rimproveriamo per questo". Oppure: "Li metteremmo in una brutta situazione se li invitassimo alle nostre conferenze". Entrambe queste posizioni presumono l'occupazione come sfondo, ma non la attaccano direttamente. Infatti, questi tipi di posizione servono solo a guadagnare tempo, mentre è adesso che occorre far conoscere la nostra opposizione. Molto spesso queste asserzioni prendono la forma di una colpa autoparalizzante che di fatto impedisce loro di prendere una responsabilità attiva e produttiva contro l'occupazione. Talvolra mi sembra che facciano della polirica di boicottaggio una questione di coscienza morale, che è diversa da un impegno politico. Se è un problema morale, allora "io" come israeliano ho la responsabilità di oppormi a parole, di affondarmi nell'autoaccusa o di autoflagellarmi in pubblico e diventare un'icona morale. Ma questo tipo di soluzioni morali sono, io penso, fuori luogo. Esse continuano a fare dell'identità "israeliana" la base della posizione politica, che è un tipo di nazionalismo tacito. Forse il punto è opporsi all'ingiustizia manifesta in nome dei più ampi principi del diritto internazionale e dell'opposizione alla violenza di stato, dell'emancipazione politica ed economica del popolo palestinese. Se per caso sei israeliano, allora la tua posizione involontariamente mostra che gli israeliani possono prendere e prendono posizione in favore della giustizia, e questo non dovrebbe sorprenderti. Ma questo non la rende una posizione "israeliana".
 
Ma lasciatemi tornare alla questione se la politica di boicottaggio nuoce alle iniziative in collaborazione o ne apre la possibilità. Io scommetto che nel momento che lei, Udi, si esprime a favore di qualche strategia di boicottaggio, distrazione o sanzione, lei avrà molti collaboratori tra i palestinesi. Io penso che molte persone temano che il boicottaggio sia contro la collaborazione, ma nei fatti gli israeliani hanno il potere di creare enormi reti di collaborazione se loro concordano con l'usare il loro potere pubblico e culturale di opporsi all'occupazione con i più potenti mezzi non violenti a disposizione. Le cose cambiano nel momento in cui dici: "Non possiamo continuare ad agire come se fosse tutto normale".
 
Certo, anch'io vorrei davvero essere in grado di parlare di romanzi, film e filosofia, magari separatamente dalla politica. Sfortunatamente, ora questo non posso farlo in Israele. Non posso farlo finché l'occupazione non è messa in discussione attivamente e con successo. Il fatto è che non c'è possibilità di recarsi in Israele senza essere usato come esempio o del boicottaggio o dell'antiboicottaggio. Perciò, quando venni molti anni fa, ed il rettore dell'Università di Tel Aviv disse: "Quanto siamo fortunati! Judith Butler è venuta all'Università di Tel Aviv, un segno che lei non accetta il boicottaggio", io fui strumentalizzata contro il mio volere. E compresi che io non potevo funzionare nello spazio pubblico senza essere già definita nel dibattito sul boicottaggio. Perciò non c'è scampo. Uno può star zitto ed accettare lo status quo, oppure uno può prendere una posizione che cerca di metterlo in discussione.
 
Spero che un giorno ci siano diverse condizioni politiche che mi permettano di andar lì e parlare di Hegel, ma ora questo è impossibile. Sono ansiosa di andare ad insegnare a Bir Zeit in Febbraio [2010, NdFedra]. Ha una forte facoltà di studi di genere e femminili, e capisco che gli studenti sono interessati a discutere questioni di guerra ed analisi culturale. Inoltre, io chiaramente intendo imparare. Il boicottaggio non è solo a proposito di dire "no" - è anche un modo di dare una forma al proprio lavoro, di fare alleanze, e di insistere sulle norme internazionali di giustizia. Lavorare dalla parte del problema dell'occupazione è partecipare alla sua normalizzazione. Ed il modo in cui lavora la normalizzazione è quello di eclissare o distorcere quella realtà nel discorso pubblico. Pertanto, non si può essere neutrali.
 
Quindi, stiamo boicottando la normalizzazione.
 
Questo è ciò che stiamo boicottando. Siamo contro la normalizzazione. E tu sai che ci sono molte tattiche per danneggiare la normalizzazione dell'occupazione. Alcuni di noi saranno bene equipaggiati per intervenire con immagini e parole, ed altri continueranno le dimostrazioni ed altre forme di dichiarazione politica e culturale. Il problema non è quello che dice il tuo passaporto (se hai un passaporto), ma quello che fai. Noi stiamo parlando di quello che accade nella tua stessa attività. Sabota e contesta la normalizzazione dell'occupazione?
 
Lei ricorderà che nella dichiarazione di Toronto contro l'attenzione data a Tel Aviv nel festival cinematografico, era assai chiaro che noi non boicottavamo le persone, ma il ministro degli esteri israeliano tentò di sostenere che noi stavamo boicottando gli individui. Eppure la questione riguarda le istituzioni. A questo proposito, vorrei chiarire: lei non parlerà all'Università di Tel Aviv ... per sempre? Beh, non per sempre ...
 
Quando sarà una magnifica università binazionale! [ride]
 
Udi Aloni è uno scrittore e cineasta israelo-americano.

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