venerdì 30 luglio 2010

Nussbaum neged/versus Butler

(quote)
 
 
The Professor of Parody = La professoressa della parodia
di Martha Nussbaum
Post date 11.28.00 | Issue Date 02.22.99
Questo articolo è stato pubblicato sul sito web della rivista americana The New Republic Online http://www.tnr.com/

I.
Per molto tempo, il femminismo accademico in America è stato stretto alleato della lotta pratica per dare alle donne giustizia ed eguaglianza. La teoria femminista è stata compresa dai teorici non solo come belle parole sulla carta; la teoria è collegata alle proposte di cambiamento sociale. Pertanto le studiose femministe si sono impegnate in molti progetti concreti: la riforma delle leggi sullo stupro; ottenere attenzione e rimedi legali per i problemi della violenza domestica e delle molestie sessuali; migliorare le opportunità economiche, le condizioni di lavoro e l'istruzione delle donne; ottenere indennità di maternità per le donne che lavorano; condurre una campagna contro la tratta delle bianche; operare per l'eguaglianza sociale e politica delle lesbiche e dei gay.
 
Certo, alcune teoriche hanno addirittura lasciato l'accademia, sentendosi più a loro agio nel mondo della politica pratica, dove loro possono affrontare direttamente questi problemi urgenti. Quelle che restano nell'accademia hanno spesso spesso fatto una questione d'onore l'essere accademiche del tipo praticamente impegnato, con gli occhi sempre puntati alle condizioni materiali delle donne reali, scrivendo sempre in una maniera che riconosca quei corpi veri e quelle lotte vere. Per esempio, uno non può leggere una pagina di Catharine MacKinnon senza affrontare un autentico problema di cambiamento legale ed istituzionale. Se uno è in disaccordo con le sue proposte - e molte femministe lo sono - quello che scrive sfida comunque a trovare un'altra soluzione al problema che è stato vividamente delineato.
 
In alcuni casi le femministe hanno dissentito su ciò che è cattivo, e su ciò che serve per migliorare le cose; ma tutte concordano che le circostanze che incombono sulle donne sono spesso ingiuste e che la legge e l'azione politico possono renderle un po' più giuste. MacKinnon, che ritrae la gerarchia e la subordinazione come endemiche a tutta la nostra cultura, è anche impegnata, e cautamente ottimista, sul fronte del cambiamento attraverso la legge - le leggi nostrane sullo stupro e sulle molestie sessuali, e le leggi internazionali sui diritti umani.
 
Anche Nancy Chodorow, che in "The Reproduction of Mothering = La riproduzione delle cure materne" ha offerto un deprimente descrizione della replicazione delle categorie di genere oppressive nell'allevamento dei figli, ha affermato che questa situazione potrebbe cambiare. Gli uomini e le donne potrebbero decidere, comprendendo le infelici conseguenze di queste abitudini, che d'ora in avanti agiranno diversamente; e mutamenti nelle leggi e nelle istituzioni possono aiutare in questo.
 
La teoria femminista ha tuttora quest'aspetto in molte parti del mondo. Per esempio, in India le femministe accademiche si sono lanciate nelle lotte pratiche, e la teoresi femminista è strettamente legata agli impegni pratici come l'alfabetizzazione femminile, la riforma delle leggi fondiarie ineguali, cambiamenti nelle leggi sullo stupro (che, nell'India di oggi [1999, NdFedra], hanno la maggior parte delle pecche contro cui lottava la prima generazione di femministe americane), lo sforzo di ottenere un riconoscimento sociale per i problemi delle molestie sessuali e della violenza domestica. Queste femministe sanno di vivere in mezzo ad una realtà ferocemente ingiusta; loro non possono essere a loro agio con se stesse senza affrontarla quasi quotidianamente, nei loro scritti teorici e nelle loro attività fuori della stanza del seminario. Ma negli Stati Uniti, le cose sono cambiate. Uno osserva una tendenza nuova ed inquietante. Non è solo il fatto che la teoria femminista dà relativamente poca attenzione alle lotte delle donne fuori degli USA. (E questa è sempre stata una spiacevole caratteristica anche di buona parte del miglior lavoro del periodo precedente). E' qualcosa di più insidioso del provincialismo che è salito alla ribalta dell'accademia americana. E' il pressoché completo estraniarsi dal lato materiale della vita, verso un tipo di politica verbale e simbolica che ha solo un debolissimo collegamento con la vera situazione delle donne vere.
 
Le pensatrici femministe del nuovo tipo simbolico danno ad intendere che per fare politica femminista occorre usare le parole in modo sovversivo, in pubblicazioni accademiche di alta oscurità e sdegnosa astrazione. Questi gesti simbolici, si crede, sono essi stessi una forma di resistenza politica; e così uno non ha bisogno di sporcarsi le mani con cose come le legislature ed i movimenti sociali per agire in modo audace. Inoltre, il nuovo femminismo istruisce i suoi membri che c'è poco spazio per un cambiamento sociale su larga scala, e forse non ce n'è proprio. Noi tutti siamo, chi più chi meno, prigionieri delle strutture di potere che hanno definito la nostra identità di donne; non possiamo mai cambiare queste strutture su larga scala, e non possiamo mai sfuggir loro. Tutto quello che possiamo sperare di fare è trovare degli spazi all'interno delle strutture di potere che ci permettano di parodiarle, di prendercene gioco, di trasgredirle nel discorso. E così la politica simbolica verbale, oltre ad essere presentata come un tipo di politica reale, viene ritenuta l'unica politica davvero possibile.
 
Questi sviluppi debbono molto alla recente preminenza del pensiero postmodernista francese. Molte giovani femministe, qualunque sia la loro affiliazione concreta con questo o quel pensatore francese, sono state influenzate dall'idea estremamente francese che l'intellettuale fa politica parlando in modo sedizioso, e che questo è un tipo significativo di azione politica. Molti hanno anche derivato dagli scritti di Michel Foucault (a torto od a ragione) l'idea fatalistica che noi siamo prigionieri di una struttura di potere omniavvolgente, e che i movimenti di riforma della vita reale di solito finiscono con il servire il potere in modi nuovi ed insidiosi. Tali femministe perciò si consolano con l'idea che l'uso sovversivo delle parole è tuttora possibile alle intellettuali femministe. Private della speranza di cambiamenti più ampi e durevoli, noi possiamo ancora esercitare la nostra resistenza ricreando le categorie verbali, e così, ai margini, dei sé che esse costituiscono.
 
Una femminista americana ha foggiato questi sviluppi più di ogni altra. Judith Butler sembra a molti giovani studiosi colei che definisce il femminismo attuale. Con l'istruzione di una filosofa, ella è frequentemente sentita (più dai letterati che dai filosofi) come una grande pensatrice sul genere, il potere ed il corpo. Mentre ci chiediamo che ne è stato della politica femminista vecchio stile e delle realtà materiali alle quali si applicava, sembra necessario fare i conti con il lavoro e l'influenza della Butler, e vagliare gli argomenti che hanno condotto così tante persone ad adottare una posizione che somiglia tanto al quietismo ed alla ritirata.
 
II.
 
E' difficile essere alle prese con le idee della Butler, perché è difficile capire quali sono. La Butler è una persona molto intelligente. Nelle discussioni pubbliche dimostrad di saper parlare chiaramente ed afferrare rapidamente quello che le si dice. Ma il suo stile di scrittura è pesante ed oscuro. E' pieno di allusioni ad altri teorici, tratte da un'ampia gamma di diverse tradizioni teoriche. Oltre a Foucault, e ad un più recente fuoco su Freud, il lavoro della Butler si affida parecchio al pensiero di Louis Althusser, della teorica lesbica francese Monique Wittig, dell'antropologo americano Gayle Rubin, di Jacques Lacan, di J. L. Austin, e del filosofo americano del linguaggio Saul Kripke. Queste figure non sono affatto d'accordo tra loro - a dir poco; pertanto un problema iniziale nel leggere la Butler è che uno è stupito dal trovare i suoi argomenti sostenuti da un appello a così tanti concetti e dottrine contraddittori, normalmente senza alcuna spiegazione di come risolvere le contraddizioni apparenti.

Un ulteriore problema sta nel modo di alludere a casaccio della Butler. Le idee di questi pensatori non sono mai descritte con dettaglio sufficiente per i non addetti ai lavori (se non sei familiare col concetto althusseriano di "interpellazione", ti perdi per interi capitoli), o per spiegare agli iniziati come, precisamente, sono intese queste difficili idee. Certo, buona parte della letteratura accademica è in qualche modo allusiva: presume la conoscenza precedente di alcune dottrine e prese di posizione. Ma nelle tradizioni filosofiche tanto continentale che angloamericana, gli autori accademici che si rivolgono ad un pubblico di specialisti normalmente riconoscono che le figure che menzionano sono complesse, ed oggetto di molte diverse interpretazioni. Loro pertanto tipicamente si assumono la responsabilità di proporre una definita interpretazione tra quelle contestate, e di argomentare il perché hanno interpretato a loro modo le figure, e perché la loro interpretazione è migliore delle altre.
 
Nella Butler, non troviamo niente del genere. Semplicemente, non si prendono in considerazione le interpretazioni divergenti - nemmeno quando, come nei casi di Foucault e Freud, sta proponendo interpretazioni molto discutibili che molti studiosi non accetterebbero. Per tanto uno trae la conclusione che l'allusività del suo modo di scrivere non può essere spiegata nel modo solito, presupponendo un pubblico di specialisti ansioso di dibattere i dettagli di una posizione accademica esoterica. Il suo modo di scrivere semplicemente non ha abbastanza spessore per soddisfare un simile pubblico. Ed è anche ovvio che il lavoro della Butler non è diretto ad un pubblico non accademici ansioso di affrontare le ingiustizie effettive. Un simile pubblico sarebbe semplicemente sconcertato dalla densa zuppa della prosa della Butler, dalla sua aria di conoscenza iniziatica, dal suo incredibile rapporto tra nomi e spiegazioni.
 
Ma allora, a chi sta parlando la Butler? Sembrerebbe che si stia rivolgendo ad un gruppo di giovani teoriche femministe nell'accademia, che non sono né studentesse di filosofia, preoccupate di quello che davvero hanno detto Althusser, Freud e Kripke, né delle estranee all'accademia, che hanno bisogno di essere informate della natura dei loro progetti e persuase del loro valore. Questo pubblico implicito viene immaginato come particolarmente docile. Soggiogato dalla voce oracolare del testo della Butler, ed abbagliato dalla sua patina di alta astrazione concettuale, il lettore implicito fa poche domande, non chiede argomentazioni e chiare definizioni dei termini.
 
Ancora più stranamente, ci si aspetta che il lettore implicito non si preoccupi granché del verdetto finale della Butler su molte questioni. Una grande proporzione delle frasi in un qualsiasi libro della Butler - specialmente quelle verso la fine dei capitoli - sono domande. Talvolta non è evidente la risposta che la domanda si aspetta. Ma spesso le cose sono ancora più indefinite. Tra le frasi non interrogative, molte iniziano con un "Considerate ..." oppure "Uno potrebbe suggerire ...", in modo tale che la Butler praticamente mai dice al lettore se approva l'opinione descritta. La mistificazione, così come la gerarchia sono gli strumenti della sua pratica, una mistificazione che elude la critica perché fa ben poche affermazioni definitive.
 
Prendiamo due esempi significativi:
 
"Che significa per la capacità di agire di un soggetto presupporre la sua propria subordinazione? L'atto di presupporre è lo stesso atto di ristabilire, o c'è una discontinuità tra il potere presupposto ed il potere ristabilito? Considerate che proprio nell'atto con cui il soggetto riproduce le condizioni della sua propria subordinazione, il soggetto esemplifica una vulnerabilità basata sul tempo che appartiene a queste condizioni, in special modo alle esigenze del loro rinnovo."
 
E:
 
"Non si può rispondere qui a queste domande, ma esse indicano una direzione del pensiero che forse precede la questione della coscienza, ovvero, la questione che ha preoccupato Spinoza, Nietzsche, e più di recente, Giorgio Agamben: 'Come possiamo capire il desiderio di essere come un desiderio costitutivo?' Resituando la coscienza e l'interpellazione in questa descrizione, noi potremmo allora aggiungere a questa domanda un'altra: 'Com'è sfruttato questo desiderio non solo da una singola legge, ma da leggi di diverso tipo tali da farci cedere alla subordinazione per farci mantenere un certo senso di 'essere' socialmente?"
 
Ma perché la Butler preferisce scrivere in questo modo stuzzicante ed esasperante? Questo stile non manca certo di precedenti. Alcuni distretti della tradizione filosofica continentale, anche se certo non tutti, hanno la sventurata tendenza a trattare il filosofo come una stella che affascina, e spesso con la sua oscurità, anziché come un argomentatore tra uguali. Quando le idee sono chiaramente espresse, in fin dei conti, esse possono essere separate dal loro autore: uno può portarle via e svilupparle in proprio. Quando rimangono misteriose (anzi, quando non sono quasi espresse), uno rimane dipendente dall'autorità che le origina. Al pensatore si dà retta solo per il turgido carisma che ha lui o lei. Uno rimane in sospeso, in attesa della mossa successiva. Quando la Butler segue questa "direzione del pensiero", che dirà? Che significa, ci dica lei per favore, per la capacità di agire di un soggetto presupporre la propria subordinazione? (A quanto riesco a vedere, non arriva nessuna chiara risposta a questa domanda.) Uno ha l'impressione di una mente tanto profondamente cogitante che non si pronuncerà su nulla a cuor leggero: ed allora uno aspetta, timoroso della sua profondità, che essa finalmente lo faccia.
 
In questo modo l'oscurità crea un'aura di importanza. Serve anche ad un altro scopo collegato. Costringe il lettore a concedere che, dacché uno proprio non riesce a capire quello che sta accadendo, deve accadere qualcosa di importante, qualche complessità di pensiero, dove in realtà ci sono spesso nozioni familiari o addirittura trite, affrontate in modo troppo semplicistico e troppo trascurato per aggiungere nuove dimensioni di comprensione. Quando i costretti lettori dei libri della Butler raccolgono il coraggio di pensarlo, vedono che le idee in questi libri sono sottili. Quando le nozioni della Butler sono espresse in modo chiaro e succinto, uno vede che, senza tante più distinzioni ed argomentazioni, non vanno lontano e non sono particolarmente nuove. Così l'oscurità riempie il vuoto lasciato dall'assenza di un'autentica complessità di pensiero ed argomentazione.
 
L'anno scorso [1998? NdFedra] la Butler ha vinto il primo premio nell'attuale Gara di Malo Scrivere sponsorizzata dalla rivista accademica "Philosophy and Literature" per questo brano:
 
"La transizione da una descrizione strutturalista in cui si comprende che il capitale struttura le relazioni sociali in modi relativamente omologhi ad una visione dell'egemonia in cui le relazioni di potere sono soggette alla ripetizione, alla convergenza, ed alla riarticolazione ha portato la questione della temporalità nel pensare la struttura, e marcato uno slittamento da una forma di teoria althusseriana che prende le totalità strutturali come oggetti teorici ad una in cui le intuizioni sulla possibilità contingente di una struttura inaugura una rinnovata concezione dell'egemonia come legata ai siti ed alle strategie contingenti di riarticolazione del potere."
 
Ora, la Butler avrebbe potuto scrivere: "Le descrizioni marxiste, che si concentrano sul capitale come la forza centrale che struttura le relazioni sociali, hanno descritto le operazioni di quella forza come ovunque uniformi. Di contro, le descrizioni althusseriane, che si concentrano sul potere, vedono le operazioni di questa forza tanto variegate quanto mutevoli nel tempo." Invece, lei preferisce una verbosità che impone al lettore di spendere tanti sforzi per decifrare la sua prosa che poca energia rimane per valutare la verità delle sue asserzioni. Annunciando il premio, il direttore della rivista ha commentato che "forse è l'oscurità ansiogena di tal modo di scrivere che ha indotto il Prof. Warren Hedges dell'Università dell'Oregon Meridionale a lodare Judith Butler come 'forse una delle dieci persone più intelligenti del pianeta'." (Tra parentesi, questo malo scrivere non è affatto universale nel gruppo dei teorici della "teoria queer" a cui è unita la Butler. Per esempio, David Halperin scrive sulla relazione tra Foucault e Kant, e sull'omosessualità greca con chiarezza filosofica e precisione storica.)
 
La Butler si guadagna prestigio nel mondo letterario facendo la filosofa; molti ammiratori associano il suo modo di scrivere alla profondità filosofica. Ma uno dovrebbe chiedersi se appartiene davvero alla tradizione filosofica, piuttosto che alle tradizioni strettamente imparentate, ma avverse, della sofistica e della retorica. Sin da quando Socrate ha distinto la filosofia da ciò che i sofisti ed i retori stavano facendo, essa è stata un discorso tra eguali che si scambiano argomentazioni e controargomentazioni senza barare in modo oscurantista. In quel modo, egli affermava, la filosofia mostrava rispetto per l'anima, mentre i metodi manipolatori degli altri mostavano soltanto mancanza di rispetto. Un pomeriggio, spossata dalla Butler in un lungo volo, mi sono messa a leggere la bozza della dissertazione di uno studente sulle opinioni di Hume sull'identità personale. Mi sono sentita rianimare. "Lei non scrive in modo chiaro," ho pensato con piacere ed anche un pizzico di orgoglio. Ma Hume, che spirito fine, che spirito grazioso: con che garbo rispetta l'intelligenza del lettore, anche a costo di mettere a nudo le sue stesse incertezze. 
 
III.
L'idea principale della Butler, presentata per la prima volta in "Gender Trouble = Scambi di genere" nel 1989 e ripetuta in tutti i suoi libri, è che il genere è un artefatto sociale. Le nostre idee su quello che sono le donne e gli uomini non riflettono nulla che esista esternamente nella natura. Invece derivano da costumi che incorporano le relazioni sociali di potere.
 
Ovviamente, questa nozione non è affatto nuova. La denaturalizzazione del genere si trovava già in Platone, ed ha avuto una grande spinta da John Stuart Mill, che asserì in "La soggezione delle donne" che "quello che ora si chiama la natura delle donne è una cosa eminentemente artificiale". Mill vide che le affermazioni sulla "natura delle donne" derivano da gerarchie di potere e le sostengono: la femminilità è fatta corrispondere a qualsiasi cosa potrebbe servire la causa di tenere le donne assoggettate o, per dirla con lui, "schiavizza[re] le loro menti". Come con la famiglia così con il feudalesimo, la stessa retorica della natura serve la causa della schiavitù. "Poiché la soggezione delle donne agli uomini appare un costume universale, ogni suo abbandono appare abbastanza naturalmente come innaturale ... ma c'è mai stata una dominazione che non sia apparsa naturale a chi la deteneva?"
 
Mill non è stato proprio il primo costruzionista sociale. Simili idee sull'ira, la gola, l'invidia, ed altre prominenti caratteristiche delle nostre vite sono state comuni nella storia della filosofia sin dalla Grecia antica. E l'applicazione di Mill di nozioni familiari di costruzione sociale al genere aveva bisogno, ed ha ancora bisogno, di un ben più ampio sviluppo; i suoi commenti suggestivi non costituivano ancora una teoria del genere. Ben prima che la Butler sia apparsa in scena, molte femministe hanno contribuito ad una simile descrizione.
 
In opere pubblicate negli anni '70 ed '80, Catharine MacKinnon ed Andrea Dworkin hanno affermato che la convenzionale comprensione dei ruoli di genere è un modo di assicurare la continuazione del dominio maschile nelle relazioni sessuali, così come nella sfera pubblica. Loro hanno portato il nocciolo dell'intuizione di Mill in una sfera della vita di cui il filosofo vittoriano ha detto poco. (Ma comunque qualcosa: nel 1869 Mill aveva già capito che il non punire lo stupro all'interno del matrimonio definiva la donna come uno strumento al servizio maschile e denegava la sua dignità umana). Già prima della Butler, MacKinnon e Dworkin hanno attaccato la fantasia femminista di una sessualità naturale idilliaca delle donne che aveva solo bisogno di essere "liberata"; e sostenevano che le forze sociali vanno così in profondità che non dobbiamo credere di riuscire ad accedre ad una siffatta nozione di "natura". Prima della Butler, esse rimarcavano i modi in cui le strutture di potere dominate dai maschi marginalizzano e subordinano non solo le donne, ma anche le persone che vorrebbero scegliere una relazione omosessuale. Esse compresero che la discriminazione contro i gay e le lesbiche è un modo di far rispttare i ruoli di genere a noi familiari e gerarchicamente ordinati; e così videro la discriminazione contro i gay e le lesbiche come una forma di discriminazione sessuale.
 
Prima della Butler, la psicologa Nancy Chodorow ci ha dato un descrizione dettagliata ed avvincente di come le differenze di genere si riproducono di generazione in generazione: essa ha affermato che l'ubiquità di questi meccanismi di replicazione ci permette di capire come quello che è artificiale può nondimeno essere quasi ubiquo. Prima della Butler, la biologa Anne Fausto Sterling, attraverso la sua puntigliosa critica dei lavori sperimentali di cui si afferma che sostengano la naturalezza delle distinzioni convenzionali di genere, ha mostrato quanto profondamente le relazioni sociali di potere abbiano compromesso l'obbiettività degli scienziati. "Myths of Gender = Miti di genere" (1985) era il titolo giusto per quello che aveva trovato nella biologia del tempo. (Anche altri biologi e primatologi hanno contribuito all'impresa.) Prima della Butler, la teorica della politica Susan Moller Okin ha esplorato il ruolo del diritto e del pensiero politico nel costruire un destino di genere per le donne nella famiglia; ed anche questo progetto è stato portato avanti da diverse femministe nel diritto e nella filosofia politica. Prima della Butler, l'importante descrizione antropologica della subordinazione, "The Traffic in Women = Il traffico delle donne" (1975), forniva una valida analisi della relazione tra l'organizzazione sociale del genere e le asimmetrie del potere.
 
Allora, che aggiunge l'opera della Butler a questo copioso corpus di scritti? "Scambi di genere" e "Bodies that matter = Corpi che contano" non contengono alcun argomento dettagliato contro le affermazioni biologistiche di una differenza "naturale", nessuna descrizione dei meccanismi di replicazione del genere, e nessuna descrizione del modo in cui il diritto foggia la famiglia; e non si concentrano affatto bene sulle possibilità di cambiamento giuridico. Che ci offre allora la Butler che non possiamo trovare fatto meglio negli scritti femministi precedenti? Un'affermazione relativamente originale è che quando noi riconosciamo l'artificialità delle distinzioni di genere, e ci asteniamo dal pensarle l'espressione di una realtà naturale indipendente, noi capiremo anche che non c'è alcuna ragione irresistibile perché i tipi di genere debbano essere proprio due (in correlazione con i due sessi biologici), piuttosto che tre o cinque, o potenzialmente infiniti. "Quando lo status del genere è teorizzato come radicalmente indipendente dal sesso, lo stesso genere diventa un artefatto non vincolato", lei scrive.
 
Da quest'affermazione non deriva, secondo la Butler, che noi possiamo reinventare liberamente i generi come ci piace: le infatti sostiene che ci sono degli stretti limiti alla nostra libertà. Ella insiste che non dobbiamo ingenuamente immaginare che ci sia un sé primordiale che stia dietro la società, pronto ad emergere completamente puro e libero: "Non c'è un sé che preceda la convergenza, o che mantenga la sua 'integrità' prima del suo ingresso in questo campo culturale conflittuale. C'è solo un prendere in mano gli strumenti dove si trovano, in cui proprio il 'prendere in mano' è consentito dallo strumento che lì giace." Ma la Butler sostiene che noi possiamo creare delle categorie che sono in un certo senso nuove, mediante l'abile parodia delle vecchie. Pertanto, la sua idea meglio nota, la sua concezione della politica come esecuzione di una parodia, è generata dal senso di una libertà (strettamente limitata) che nasce dal riconoscimento che le idee di genere di una persona sono state foggiate da forze che sono sociali piuttosto che biologiche. Noi siamo condannati alla ripetizione delle strutture di potere in cui siamo nati, ma possiamo almeno prendercene gioco; ed alcuni modi di prendercene gioco sono attacchi sovversivi alle norme originali.
 
L'idea del genere come 'performance' è l'idea più famosa della Butler, e pertanto vale la pena fermarsi per esaminarla più da vicino. Lei ha introdotto la nozione in modo intuitivo, in "Scambi di genere", senza invocare precedenti teorici. Più tardi ha negato di essersi rifrita ad una 'performance' quasi teatrale, ed ha associato invece la sua nozione con la descrizione che Austin fa degli atti discorsivi in "Come fare cose con le parole". La categoria linguistica di Austin dei "performativi" è una categoria di espressioni linguistiche che funzionano di per sé come azioni anziché asserzioni. Quando (nelle giuste circostanze sociali) io dico: "Scommetto dieci dollari", "Mi scuso", "Lo voglio" (quando mi sposo), oppure "Battezzo questa nave ...", io non sto parlando di una scommessa, di una scusa, di un matrimonio, o del battesimo di una nave - sto facendo una di queste cose.
 
L'analoga affermazione della Butler sul genere non è ovvia, dacché le "performances" in questione implicano gesti, abiti, movimenti, ed azioni, oltre al linguaggio. La tesi di Austin, che vale solo all'interno di un'analisi alquanto tecnica di una certa categoria di frasi, non è infatti di grande aiuto alla Butler nello sviluppo delle sue idee. Infatti, sebbene ella rifiuti con veemenza le interpretazioni della sua opera che associano la sua opinione con il teatro, pensare al lavoro sovversivo dei generi compiuto dal Living Theater sembra illuminare le sue idee ben più che pensare ad Austin.
 
[Ho già scritto che secondo me il paragone più opportuno è tra le "performances" di genere della Butler e gli atti di culto, che in inglese si chiamano "divine services" - NdFedra]
 
Né è molto plausibile il trattamento che la Butler riserva ad Austin. Lei fa la bizzarra affermazione che il fatto che la cerimonia nuziale sia una delle dozzine di esempi di performativi nel testo di Austin suggerisce "che l'eterosessualizzazione del legame sociale è la forma paradigmatica per questi atti discorsivi che producono quello che nominano." Non proprio. Per Austin il matrimonio non è più paradigmatico della scommessa, del battesimo di una nave, della promessa o delle scuse. A lui interessa una caratteristica formale di alcune espressioni, e non c'è motivo di supporre che il loro contenuto abbia alcun significato per il suo argomentare. Di solito è un errore scovare un senso da scuotere il mondo nella banale scelta degli esempi che fa un filosofo. Dobbiamo dire che l'uso che fa Aristotele di una dieta a basso contenuto di grassi per illustrare il sillogismo pratico suggerisce che il pollo è al cuore della virtù aristotelica? O che l'uso che Rawls fa dei piani di viaggio per illustrare il ragionamento pratico mostra che "Una teoria della giustizia" intende dare a tutti noi una vacanza?
 
Mettendo da parte queste stranezze, il punto della Butler è presumibilmente questo: quando noi agiamo e parliamo in un modo diviso in generi, non stiamo semplicemente riferendo qualcosa che è già dato nel mondo, lo stiamo attivamente creando, replicando e rinforzanzo. Comportandoci come se ci fossero "nature" maschili e femminili, noi co-creiamo la finzione sociale che queste nature esistono. Non ci sono mai indipendentemente dalle nostre azioni; siamo sempre noi che le facciamo essere qui. Allo stesso modo, eseguendo queste performances in un modo lievemente diverso, in un modo parodistico, noi possiamo forse disfarle un pochino.
 
Pertanto l'unico posto per la nostra capacità di agire in un mondo costretto dalla gerarchia è nelle piccole opportunità che abbiamo di opporci ai ruoli di genere ogni volta che essi prendono forma. Quando mi vedo creare la femminilità, io posso rivoltarla, prendermene gioco, crearla un po' diversamente. Secondo la Butler, queste performances reattive e parodistiche, non destabilizzano mai il grande sistema. Lei non immagina dei movimenti di resistenza di massa, o campagne di riforma politica; soltanto atti personali portati avanti da un piccolo gruppo di attori perspicaci. Proprio come degli attori con un cattivo copione possono sovvertirlo rendendo in modo strano le righe scritte male, così accade con il genere: il copione è sempre scritto male, ma gli attori hanno un minimo di libertà. Così abbiamo la base per quello che, in "Excitable Speech = Discorso eccitabile", Butler chiama "una speranza ironica".
 
Fin qui, le asserzioni della Butler, per quanto relativamente familiari, sono plausibili e pure interessanti, sebbene uno sia già turbato dalla sua ristretta visione delle possibilità di cambiamento. Eppure la Butler aggiunge a queste affermazioni plausibili sul genere altre due che sono più forti e controverse. La prima è che non c'è agente dietro o prima le forze sociali che producono il sé. Se questo significa solo che i bimbi nascono in un mondo diviso in generi che inizia praticamente subito a creare maschi e femmine, l'affermazione è plausibile, ma non sorprendente: degli esperimenti hanno dimostrato per qualche tempo che il modo in cui i bimbi sono tenuti in braccio e gli si parla, il modo in cui le loro emozioni vengono descritti, sono profondamente foggiati dal sesso che gli adulti in questione credono che abbia il bimbo. (Lo stesso bambino verrà lanciato in aria se loro credono che sia un maschio, coccolato se credono che sia una femmina; il suo pianto verrà etichettato come di paura se gli adulti pensano che sia una femmina, come di rabbia se pensano che sia un maschio.) La Butler non ha interesse in questi fatti empirici, ma sostengono la sua asserzione.
 
Ma se lei invece intende che i bimbi entrano nel mondo completamente inerti, senza tendenze e senza abilità che siano in qualche modo precedenti alla loro esperienza in una società divisa in generi, questo è assai meno plausibile e difficile da sostenere empiricamente. La Butler non offre alcun sostegno siffatto, preferendo rimanere nel piano alto dell'astrazione metafisica. (Infatti, la sua recente opera freudiana potrebbe pure ripudiare quest'idea: esso suggerisce, con Freud, che ci sono almeno alcuni impulsi e tendenze presociali, anche se, tipicamente, questa linea di pensiero non è chiaramente sviluppata.) Inoltre, un simile diniego esagerato di una capacità di agire pre-culturale si porta via alcune delle risorse che Chodorow ed altri usano quando cercano di spiegare il cambiamento culturale in senso migliorativo.
 
La Butler alla fine vuol dire che noi abbiamo una certa capacità di agire, un'abilità di intraprendere il cambiamento e la resistenza. Ma da dove viene quest'abilità, se non c'è struttura nella personalità che non sia completamente creata dal potere? Non è impossibile per la Butler rispondere a questa domanda, ma di certo non le ha ancora risposto, in un modo che possa convincere coloro che ritengono che gli esseri umani hanno almeno alcuni desideri preculturali - di cibo, di conforto, di padronanza cognitiva, di sopravvivenza - e che questa struttura della personalità sia cruciale per spiegare il nostro sviluppo come agenti morali e politici. Uno vorrebbe vederla alle prese con le forme più forti di questa visione e dire esattamente, chiaramente e non in gergo, perché ed in che cosa lei le respinge. Uno vorrebbe anche sentirla parlare di infanti veri, che sembrano manifestare una struttura dello sforzo che influenza fin dall'inizio la loro recezione delle forme culturali.
 
La seconda forte affermazione della Butler è che anche il corpo stesso, e specialmente la distinzione tra i due sessi, è una costruzione sociale. Ella intende non solo che il corpo è foggiato in molti modi dalle norme sociali su come gli uomini e le donne dovrebbero essere; ella afferma inoltre che il fatto che una divisione binaria dei sessi sia presa per fondamentale, come una chiave dell'ordinamento sociale, è essa stessa un'idea sociale che non è data nella realtà corporea. Che significa esattamente quest'affermazione, e quanto è plausibile?
 
La breve spiegazione della Butler del lavoro di Foucault sugli ermafroditi ci mostra l'ansiosa insistenza della società di classificare ogni essere umano in una scatola o nell'altra, che l'individuo entri o meno in una scatola; però ovviamente non ci mostra che ci sono tanti casi indeterminati siffatti. Lei ha ragione ad insistere che noi potremmo aver fatto molte diverse classificazioni di tipi corporei, non necessariamente concentrate sulla divisione binaria come la più rilevante; ed ha anche ragione ad insistere che, in grande misura, le affermazioni di di differenze sessuali corporee che si dichiarano basate sulla ricerca scientifica sono state proiezioni di un pregiudizio culturale - anche se la Butler qui non ci offre nulla di altrettanto convincente della scrupolosa analisi biologica di Fausto Sterling.
 
Eppure è fin troppo semplice che il potere è tutto quello che è il corpo. Noi potremmo aver avuto i corpi degli uccelli o dei dinosauri o dei leoni, ma non è così; e questa realtà foggia le nostre scelte. La cultura può formare e riformare alcuni aspetti della nostra esistenza corporea, ma non ne forma tutti i suoi aspetti. "Nell'uomo oppresso dalla fame e dalla sete," osservava tanto tempo fa Sesto Empirico, "è impossibile convincerlo con il ragionamento che non ha quest'oppressione." Questo è un fatto importante anche per il femminismo, dacché le esigenze nutritive delle donne (e le loro speciali necessità quando sono gravide od allattano) sono un importante argomento femminista. Anche dove si parla della differenza sessuale, è certo troppo semplice scartarla come cultura, né le femministe dovrebbero essere ansiose di fare un gesto tanto radicale. Le donne che corrono o giocano a pallacanestro, per esempio, avevano ragione a dare il benvenuto alla demolizione dei miti sulle prestazioni atletiche femminili che erano il prodotto di presupposti maschilisti; ma loro avevano anche ragione a chiedere la ricerca specializzata sui corpi delle donne che ha prodotto una miglior comprensione delle necessità di allenamento delle donne e delle lesioni che subiscono le donne. In breve: ciò di cui ha bisogno il femminismo, e talvolta ottiene, è uno studio sottile dell'interazione tra differenze corporee e costruzioni culturali. Ed i pronunciamenti astratti della Butler, che galleggiano ben più in alto della materia, non ci danno nulla di ciò che ci serve.
 
IV.
Supponiamo di accettare la più interessante delle affermazioni della Butler fino a questo punto: che la struttura sociale del genere è ubiqua, ma noi possiamo resisterle con atti sovversivi e parodistici. Rimangono due significative questioni:  a che cosa dobbiamo resistere, e su che base? Come sarebbero gli atti di resistenza, e che cosa dobbiamo aspettarci che raggiungano?
 
La Butler usa diverse parole per quello che lei ritiene cattivo e che perciò meriti la resistenza: il "repressivo", il "subordinante", l'"oppressivo". Ma ella non dà alcuna discussione empirica della resistenza del tipo che noi troviamo, per esempio, nell'affascinante studio sociologico di Barry  Adam "The Survival of Domination = La sopravvivenza del dominio" (1978), che studia la subordinazione dei neri, degli ebrei, delle donne, dei gay e delle lesbiche, ed i loro modi di lottare con le forme di potere sociale che li hanno oppressi. Né la Butler offre alcuna descrizione dei concetti di resistenza ed oppressione che ci possa aiutare, se noi fossimo davvero nel dubbio su che cosa merita la nostra resistenza.
 
Da questo punto di vista, la Butler si separa dalle precedenti femministe fautrici del costruzionismo sociale, che hanno usato tutte quante idee come non-gerarchia, eguaglianza, dignità, autonomia, e trattare le persone come fini piuttosto che come mezzi, per indicare la direzione per la politica effettiva. Lei è assai meno disposta ad elaborare qualsiasi nozione normativa positiva. Infatti, è chiaro che la Butler, come Foucault, si oppone irremovibilmente a nozioni normative come la dignità umana, o trattarre l'umanità come un fine, per la ragione che esse sono intrinsecamente dittatoriali. Nella sua opinione, noi dobbiamo attendere ciò che ci fornisce la stessa lotta politica, piuttosto che prescriverlo inizialmente a chi vi prende parte. Le nozioni normative universali, ella dice, "colonizzano sotto il segno del medesimo".
 
Quest'idea di aspettare e vedere quello che abbiamo - in una parola, questa passività morale - sembra plausibile nella Butler perché lei tacitamente presume un pubblico di lettori con idee simili alle sue che concordano (o quasi) su quelle che sono le cose cattive - la discriminazione contro i gay e le lesbiche, il trattamento diseguale e gerarchico delle donne - e che concordano pure (o quasi) sul perché sono cattive (subordinano alcune persone ad altre, negano alle persone delle libertà che devono avere). Ma se elimini questo presupposto, e l'assenza di una dimensione normativa diventa un grave problema.
 
Prova ad insegnare Foucault ad una facoltà di legge del giorno d'oggi, come ho fatto io, e scopri subito che la sovversione prende molte forme, non tutte congeniali alla Butler ed ai suoi alleati. Come mi ha detto un sagace studente libertario, "Perché non posso usare queste idee per resistere al sistema fiscale, od alle leggi antidiscriminatorie, o perfino per unirmi alle milizie?" Altri, che amano di meno la libertà, potrebbero impegnarsi nelle performances sovversive di prendersi gioco dei commenti femministi in classe, oppure di strappare i poster delle associazioni degli studenti di legge lesbici e gay. Capitano questa cose. Sono parodistiche e sovversive. Perchè, allora, queste non sono coraggiose e buone?
 
Beh, ci sono delle buone risposte a queste domande, ma non le trovi in Foucault o nella Butler. Risponder loro richiede di discutere su quali libertà ed opportunità gli esseri umani debbono avere, e che significa per le istituzioni sociali trattare gli esseri umani come fini anziché come mezzi - insomma, una teoria normativa della giustizia sociale e della dignità umana. Una cosa è dire che dovremmo portare le nostre norme universali con umiltà, ed essere disposti ad imparare dall'esperienza delle persone oppresse. Ben altra cosa è dire che non abbiamo bisogno di alcuna norma. Foucault, al contrario della Butler, perlomeno mostrava dei segni nella sua ultima opera di voler affrontare questo problema; e tutti i suoi scritti sono animanti da un forte senso della tessitura dell'oppressione sociale e del male che fa.
 
Se ci pensate, la giustizia, intesa come virtù personale, ha proprio la stessa struttura del genere nell'analisi butleriana: non è né innata né "naturale", è prodotta da ripetute performances (o, per dirla con Aristotele, la impariamo praticandola), foggia le nostre inclinazioni e forza la repressione di alcune di esse. Queste performances rituali, e le loro repressioni associate, sono fatte rispettare da intese di potere sociale, come rapidamente scoprono i bimbi che non condividono sul parco giochi. Inoltre, la sovversione parodistica della giustizia è ubiqua nella politica, così come nella vita personale. Ma c'è un'importante differenza. Normalmente noi non apprezziamo queste performances sovversive, e pensiamo che i giovani dovrebbero essere fortemente dissuasi dal vedere le norme di giustizia in una luce tanto cinica. La Butler non può spiegare in alcun modo puramente strutturale o procedurale perché la sovversione delle norme di genere è socialmente un bene, mentre la sovversione delle norme di giustizia è socialmente un male. Dovremmo ricordare che Foucault ha applaudito l'Ayatollah, e perché non lo avrebbe dovuto fare? Anche quella era resistenza, e non c'era in effetti nulla nel testo che ci dicesse che quella lotta valeva meno di una lotta per i diritti e le libertà civili.
 
C'è pertanto un vuoto, dunque, al cuore della nozione di politica della Butler. Questo vuoto può apparire liberante, perché il lettore lo riempie implicitamente con una teoria normativa dell'eguaglianza o della dignità umana. Ma non ci dobbiamo sbagliare: per la Butler, come per Foucault, la sovversione è sovversione, ed in principio può andare in ogni direzione. Infatti, la politica ingenuamente vuota della Butler è particolarmente pericolosa per le stesse cause che le sono care. Per ogni amico della Butler, ansioso di compiere delle performances sovversive che si beffano delle norme fiscali, della non-discriminazione, del trattare i compagni di corso in modo corretto. A queste persone dovremmo dire: "Non puoi semplicemente resistere come più ti piace, perché ci sono norme di correttezza, decenza e dignità che implicano che questo è un cattivo comportamento". Ma allora dovremmo articolare queste norme - ed è quello che la Butler si rifiuta di fare.
 
V.
Ma che ci offre con precisione la Butler quando ci consiglia la sovversione? Lei ci dice di compiere performances parodistiche, ma ci avverte che il sogno di sfuggire completamente alle strutture oppressive non è che un sogno: è all'interno delle strutture oppressive che noi possiamo trovare degli spazietti di resistenza, e questa resistenza non può sperare di cambiare la situazione complessiva. E qui c'è un quietismo pericoloso.
 
Se la Butler vuole solo metterci in guardia del pericolo di fantasticare un mondo idilliaco in cui il sesso non sollevi alcun serio problema, lei è saggia. Eppure spesso lei va molto oltre. Lei suggerisce che le strutture istituzionali che garantiscono la marginalizzazione delle lesbiche e dei gay nella nostra società, e la persistente ineguaglianza delle donne, non saranno mai cambiate in modo profondo; e così la nostra miglior speranza è far loro marameo, e trovare sacche di libertà personale al loro interno. "Chiamata con un nome ingiurioso, io entro nell'essere sociale, e poiché ho un certo attaccamento inevitabile alla mia esistenza, poiché un certo narcisismo si impossessa di ogni termine che conferisce l'esistenza, io sono condotta ad abbracciare i termini che mi ingiuriano perché mi costituiscono socialmente." In altre parole: non posso sfuggire alle strutture umilianti senza smettere di essere, così la miglior cosa che posso fare è deridere ed usare in modo pungente il linguaggio della subordinazione. Nella Butler, la resistenza è sempre immaginata come personale, più o meno privata, che non implica alcuna azione pubblica organizzata e senza ironia per il cambiamento legale od istituzionale.
 
Non equivale a dire ad uno schiavo che l'istituzione della schiavitù non cambierà mai, ma puoi trovare dei modi di deriderla e sovvertirla, trovando la tua libertà personale all'interno di questi atti di sfida attentamente limitati? Eppure è un fatto che l'istituzione della schiavitù può essere cambiata, e lo è stata - ma non dalle persone che hanno avuto un'idea butleriana delle possibilità. Fu cambiata perché la gente non si è accontentata delle performances parodistiche: loro hanno chiesto, ed in qualche misura hanno ottenuto, un sovvertimento sociale. E' inoltre un fatto che le strutture istituzionali che foggiano le vite delle donne sono cambiate. La legge sugli stupri, che pure ha ancora dei difetti, è perlomeno migliorata; esiste una legge sulle molestie sessuali, che prima non c'era; il matrimonio non è più visto come una cosa che dà all'uomo il controllo monarchico sui corpi delle donne. Queste cose sono state cambiate dalle femministe che non hanno accolto le performances parodistiche come una risposta, e che hanno pensato che il potere, quando cattivo, avrebbe dovuto cedere ed infine ceduto davanti alla giustizia. 
 
La Butler non solo si astiene da questa speranza, si compiace della sua impossibilità. Trova eccitante contemplare l'asserita immobilità del potere, ed immaginare le sovversioni rituali dello schiavo che è convinto che deve rimanere così. Lei ci dice - questa è la tesi centrale di "The Psychic Life of Power = La vita psichica del potere" - che noi tutti erotizziamo le strutture di potere che ci opprimono, e perciò possiamo trovare il piacere sessuale solo all'interno dei loro confini. Sembra essere per questo che lei preferisce gli arrapanti atti di sovversione parodistica ad ogni durevole cambiamento materiale od istituzionale. Un vero cambiamento sradicherebbe le nostre menti così tanto da rendere la soddisfazione sessuale impossibile. Le nostre libido sono la creazione delle malvage forze schiavizzatrici, e pertanto di struttura necessariamente sadomasochistica.
 
Beh, le performances parodistiche non sono così male quando sei una cattedratica in un'università progressista. Ma qui ì il punto in cui la concentrazione della Butler sul simbolico, il suo orgoglioso trascurare la parte materiale della vita, diventa una fatale cecità. Per le donne che sono affamate, analfabete, senza diritti politici, picchiate, stuprate, non è né arrapante né liberatorio ri-rappresentare, pur facendone una parodia, le condizioni di fame, analfabetismo, mancanza di diritti politici, pestaggi, stupri. Queste donne preferiscono il cibo, le scuole, il diritto di voto, e l'integrità del loro corpo. Non vedo motivo di credere che esse aspirino sadomasochisticamente ad un ritorno delle condizioni malvage. Se alcuni individui non riescono a vivere senza l'attrattiva sessuale dell'essere dominati, questo sembra triste, ma non è proprio affar nostro. Ma quando una teorica di vaglia dice alle donne che sono in condizioni disperate che la vita offre loro solo la schiavitù, essa ci offre una crudele menzogna, una menzogna che adula il male dandogli molto più potere di quanto ne abbia realmente.
 
"Excitable Speech", il libro più recente della Butler, che ci offre la sua analisi delle controversie legali che coinvolgono la pornografia e l'istigazione all'odio, ci mostra esattamente fino a che punto giunge il suo quietismo. Dacché ella ora è disposta a dire che anche dove è possibile un cambiamento giuridico, anche dove è già avvenuto, dovremmo augurarci che non ci sia (stato), per conservare lo spazio in cui l'oppresso possa recitare i suoi rituali sadomasochistici di parodia.
 
Come opera sul diritto della libertà di parola, "Excitable Speech" è un libro catastroficamente pessimo. La Butler non dimostra alcuna conoscenza delle principali trattazioni teoriche sul Primo Emendamento, e nessuna coscienza dell'ampia gamma di casi che una simile teoria dovrebbe prendere in considerazione. Ella fa delle affermazioni giuridicamente assurde: per esempio, ella afferma che l'unico tipo di discorso che è stato dichiarato 'non protetto' è il discorso che è stato precedentemente descritto come condotta anziché come discorso. (In effetti, ci sono molti tipi di discorso, dalla pubblicità mendace o fuorviante, alle affermazioni diffamatorie, all'oscentià così come attualmente definita, di cui non si è mai detto che fossero azioni anziché discorsi, ed a cui nondimeno viene negata la protezione del Primo Emendamento.) La Butler afferma anche, sbagliando, che l'oscenità è stata giudicata come l'equivalente delle "parole bellicose". E non è che la Butler abbia un argomento che sostenga la sua rilettura dell'ampia gamma di casi di discorso 'non protetto' che una descrizione del Primo Emendamento dovrebbe coprire. Semplicemente lei non si è accorta che c'è quest'ampia gamma di casi, o che la sua opinione non è un'opinione giuridica ampiamente accettata. Nessuno che abbia interesse nel diritto potrebbe prendere sul serio i suoi argomenti.
 
Ma estraiamo dalla fievole discussione della Butler dell'istigazione all'odio ed alla pornografia il nocciolo della sua posizione. E' questa: le proibizioni legali dell'istigazione all'odio e la pornografia sono problematiche (anche se alla fine essa non si oppone chiaramente ad esse) perché chiudono lo spazio in cui le parti lese da questo discorso possono compiere la loro resistenza. Con questo la Butler sembra intendere che se all'attacco si reagisce ricorrendo al sistema giudiziario, ci saranno meno occasioni di protesta informale; ed anche, forse, che se l'offesa diviene più rara perché illegale, ci saranno meno opportunità di protestare contro la sua presenza.
 
Beh, sì. La legge chiude questi spazi. L'istigazione all'odio e la pornografia sono argomenti estremamente complicati su cui le femministe possono ragionevolmente dissentire. (Eppure, uno dovrebbe esprimere con precisione le opinioni che si confrontano: il modo in cui la Butler riferisce della MacKinnon è meno che accurato, dacché afferma che la MacKinnon appoggia delle "ordinanze contro la pornografia", e suggerisce che, ad onta dell'esplicita negazione della MacKinnon, esse implicano una forma di censura. La Butler non menziona mai che quello che effettivamente sostiene la MacKinnon è un'azione civile per danni in cui le donne individualmente danneggiate dalla pornografia possono far causa ai suoi autori e distributori.)
 
Ma l'argomento della Butler ha implicazioni che vanno ben oltre i casi dell'istigazione all'odio e della pornografia. Sembra sostenere non solo il quietismo in queste aree, ma un quietismo legale molto più generale - o, in effetti, un libertarismo radicale. Funziona così: disfiamoci di tutto, dai piani regolatori alle leggi contro la discriminazione alle leggi contro lo stupro, perché esse chiudono gli spazi all'interno dei quali i residenti danneggiati, le vittime della discriminazione, le donne stuprate possono compiere la loro resistenza. Ora, questo non è lo stesso argomento che usano i libertari radicali per opporsi ai piani regolatori ed alle leggi contro la discriminazione; ed anche loro mettono lo stupro al di là del segno. Ma le conclusioni convergono.
 
Se la Butler replicasse che la sua argomentazione riguarda solo il discorso (e non c'è ragione espressa nel testo per questa limitazione, data l'assimilazione del discorso pericoloso alla condotta), allora possiamo rispondere nel dominio del discorso. Abroghiamo le leggi contro la pubblicità ingannevole e le diagnosi mediche compiute da persone non qualificate, perché chiudono lo spazio in cui i consumatori avvelenati ed i pazienti mutilati possono compiere la loro resistenza! Ancora una volta, se la Butler non approva queste estenzioni, deve presentare un'argomentazione che divida i suoi casi da questi casi, e non è chiaro che la sua posizione le permetta di fare questa distinzione.
 
Per la Butler, l'atto sovversivo è così incantevole, così arrapante, che è un brutto sogno pensare che il mondo migliorerà davvero. Che noia l'eguaglianza! Niente bondage, niente delizia. In questo modo, la sua pessimistica antropologia erotica sostiene una politica anarchica amorale.
 
VI.
Quando noi consideriamo il quietismo intrinseco agli scritti della Butler, abbiamo alcune chiavi per comprendere l'influente fascinazione con le drag ed il travestimento come paradigmi della resistenza femminista. I seguaci della Butler intendono la sua descrizione delle drag come implicante che queste performances sono dei modi per le donne di essere audaci e sovversive. Non conosco tentativi della Butler di respingere queste interpretazioni. 
 
Ma di che si tratta alla fine? La donna vestita da uomo non è per niente una novità. Infatti, anche quando era relativamente nuova, nel diciannovesimo secolo, era da un altro verso piuttosto vecchia, in quanto non faceva che replicare nel mondo lesbico gli stereotipi e le gerarchie esistenti della società maschio-femminile. Che cos'è, potremmo chiederci, la sovversione parodistica in quest'area, e che cosa un tipo di accettazione da parte di un prospero ceto medio? La gerarchia nelle drag non è ancora gerarchia? Ed è proprio vero (come "The Psychic Life of Power" sembra concludere) che dominio e soggezione sono i ruoli che le donne debbono recitare in ogni sfera, e se non si tratta di soggezione, si tratta di dominio di tipo maschile?
 
In una parola, travestirsi per le donne è un copione vecchio e trito - come la stessa Butler ci informa. Eppure lei vorrebbe che noi vedessimo il copione sovvertito, rinnovato, dagli scaltri gesti sartoriali della travestita; ma dobbiamo ancora chiederci se è cosa nuova, e pure se è sovversiva. Pensate alla parodia di Andrea Dworkin (nel suo romanzo "Mercy = Misericordia") di una femminista parodista alla Butler, che annuncia dalla sua posizione di sicuro agio accademico:
 
"La nozione che accadono cose cattive è tanto propagandistica quanto inadeguata. ... Capire la vita di una donna esige che noi affermiamo le dimensioni nascoste od oscure del piacere, spesso nel dolore, e della scelta, spesso sotto costrizione. Uno deve sviluppare un occhio per dei segni segreti - i vestiti che sono più che vestiti od abbellimenti nel dialogo contemporaneo, ad esempio, o la ribellione nascosta dietro l'apparente conformità. Non c'è vittima. C'è forse un'insufficienza dei segni, una testarda apparenza di conformità che semplicemente maschera il livello più profondo in cui avviene la scelta.
 
In una prosa alquanto diversa da quella della Butler, questo brano cattorua l'ambivalenza dell'autore implicito di alcune delle opere della Butler, che trae piacere nella sua pratica di violazione, mentre allontana risolutamente il suo occhio teorico dalla sofferenza materiale delle donne che sono affamate, analfabete, violate, picchiate. Non c'è vittima. C'è solo un'insufficienza di segni.
 
La Butler suggerisce ai suoi lettori che questa furba parodia dello status quo è l'unico copione resistenziale che la vita ci offre. Beh, no. Oltre ad offrire molti altri modi di essere umani nella propria vita personale, oltre alle norme tradizionali di dominio e soggezione, la vita offre anche molti copioni resistenziali che non si concentrano narcisisticamente sull'auto-presentazione. Tali copioni coinvolgono le femministe (ed altri, ovviamente) nella costruzione di leggi ed istituzioni, senza troppe preoccupazione per il modo in cui una donna mette in mostra il suo proprio corpo e la sua natura dotata di genre: in una parola, impongono di lavorare per altre persone che soffrono.
 
La grande tragedia della nuova teoria femminista in America è la perdita del senso dell'impegno pubblico. In questo senso, il femminismo egoistico della Butler è estremamente americano, e non c'è da stupirsi che abbia preso piede qui, dove la gente di successo della classe media preferisce concentrarsi sulla coltivazione del sé anziché pensare in un modo che aiuti le condizioni materiali altrui. Ma anche in America è possibile per i teorici dedicarsi al bene pubblico ed ottenere qualcosa con questo sforzo.
 
Molte femministe in America stanno tuttora teorizzando in un modo che sostiene il cambiamento materiale ed affronta la situazione dei più oppressi. Però, sempre più si vede come la tendenza accademica e culturale sia verso la civetteria pessimista rappresentata dalle teorie della Butler e dei suoi allievi. Il femminismo butleriano è in molti modi più semplice del vecchio femminismo. Dice a decine di giovani donne di talento che non hanno bisogno di lavorare perché sia cambiata la legge, perché siano nutriti gli affamati, od attaccato il potere con una teoria al servizio della politica materiale. Loro possono far politica nella sicurezza dei loro campus, rimanendo a livello simbolico, facendo gesti sovversivi al potere attraverso le parole ed i gesti. Questo, dice la teoria, è pressoché tutto quello che possiamo fare comunque, con l'azione politica, e non è eccitante ed arrapante?
 
Ovviamente, nella sua piccola via, questa è una politica di speranze. Istruisce la gente che ora loro possono, senza compromettere la loro sicurezza, fare qualcosa di audace. Ma l'audacia è puramente gestuale, e nella misura in cui l'ideale della Butler suggerisce che questi gesti simbolici sono un autentico cambiamento politico, offre solo una falsa speranza. Le donne affamate non ne sono nutrite, le donne picchiate non vi trovano rifugio, le donne stuprate non vi trovano giustizia, i gay e le lesbiche non ricevono con esso protezione legale.
 
Infine, c'è disperazione al cuore dell'allegra impresa butleriana. La gran speranza, la speranza di un mondo di autentica giustizia, dove le leggi e le istituzioni proteggono l'eguaglianza e la dignità di tutti i cittadini, è stata bandita, e pure magari schernita come sessualmente noiosa. Il quietismo alla moda della Butler è una risposta comprensibile alla difficoltà di realizzare la giustizia in America. Ma è una risposta cattiva. Collabora con il male. Il femminismo chiede di più e le donne meritano di meglio.
 
(unquote)
 
Articolo di Martha Nussbaum, 1999
Traduzione di Fedra, 2010

sabato 24 luglio 2010

La scala di Dorothy Riddle dell'eterosessismo



Ho pensato che questa scala dell'eterosessismo/omofobia/bifobia/transfobia meritasse di essere tradotta; il documento non contiene un test che misuri gli atteggiamenti, ma la divisione che propone mi pare convincente e facile da applicare.

*** Atteggiamenti negativi ***


Repulsione: omosessualità, bisessualità e transessualità [transgenderism] sono considerati "crimini contro natura". Le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali (LGBT) sono considerate malate, pazze, immorali, peccatrici, malvage, ecc. e qualsiasi cosa è giustificabile per cambiarle (per esempio, la prigione, l'ospedalizzazione, la terapia comportamentale negativa - la cosiddetta "terapia avversiva"), compresa la scossa elettrica.


Pietà: eterosessualismo [heterosexual chauvinism]. L'eterosessualità è ritenuta più matura ed assolutamente preferibile. Ogni possibilità di diventare eterosessuale dovrebbe essere incoraggiata. Le persone che sembrano "nate così" meritano solo pietà, e dovrebbero attendere una "cura".


Tolleranza: omosessualità, bisessualità e transessualità sono solo delle "fasi" dello sviluppo adolescenziale che molte persone attraversano, e da cui la maggior parte delle persone "escono maturando". Gli LGBT sono meno maturi degli etero e dovrebbero essere trattati con la protettività e l'indulgenza che si adopera con i bimbi. Agli LGBT non si devono dare posizioni di autorità perché stanno attardandosi in comportamenti da adolescenti.


Accettazione: "accettazione" significa che c'è qualcosa che non va nella persona da accettare. Frasi come: "Tu non sei una persona omosessuale, ma solo una persona", oppure: "Quello che fai a letto è affar tuo" e: "Va bene, purché tu non lo esibisca [flaunt]" implicano tutte un doppio standard, perché le persone eterosessuali non hanno niente da nascondere delle loro identità sessuali o di genere. Poiché "esibire" può includere qualsiasi comportamento che renda edotte le persone della propria sessualità od identità di genere, l'accettazione ignora il dolore dell'invisibilità e lo stress del tenersi tutto dentro [closet behavior].


*** Atteggiamenti positivi ***


Sostegno: agire per salvaguardare i diritti degli LGBT. Queste persone potrebbero provar disagio per gli LGBT, ma si rendono conto del clima e delle discriminazioni.


Ammirazione: riconoscere che per essere LGBT nella nostra società ci vuol fegato [strength]. L'ammirazione mostra volontà di guardarsi davvero dentro e lavorare sui propri atteggiamenti omofobici/eterosessisti/bifobici/transfobici.


Apprezzamento: apprezzare la diversità delle persone e percepire gli LGBT come valide parti di questa diversità. L'apprezzamento mostra disponibilità a combattere l'omofobia/eterosessismo/bifobia/transfobia in sé e negli altri.


*** Atteggiamento ottimale ***


Nutrimento: riconoscere che gli LGBT sono indispensabili alla nostra società, vedere gli LGBT con genuino affetto e piacere [delight], ed avere la disponibilità ad essere alleati e difensori degli LGBT.

*** Commento ***

Il mio atteggiamento si colloca tra l'apprezzamento ed il nutrimento: non arrivo a pensare che gli LGBT siano indispensabili, anche se le mie migliori amiche ed amici sono lesbiche e gay (il che implica "genuino affetto e piacere") - ma sono pronto ad essere loro "alleato e difensore".

venerdì 23 luglio 2010

Alison Bechdel, Dykes

http://dykestowatchoutfor.com/the-essential-dtwof
http://bur.rcslibri.corriere.it/libro/3277_dykes_bechdel.html
Alison Bechdel
Dykes
Milano Rizzoli 2009

E' uno dei più bei libri a fumetti che io abbia mai letto, anche se non mancano le debolezze.

Il pregio principale è che per le persone che non hanno idea di come vivano le donne lesbiche, questo libro è assai istruttivo, in quanto mostra amori, passioni politiche, ed in qualche caso pure le meschinità, di una comunità di lesbiche americane che fa capo ad una libreria specializzata. Ci si commuove molto a leggerlo, ed anche le occasionali scene erotiche non infastidiscono.

La debolezza principale è dovuta al fatto che ogni tavola del fumetto è autoconclusiva, ovvero concepita come una storia a sé stante (o quasi - alcune lasciano la storia in sospeso e rimandano esplicitamente alla puntata successiva), secondo il modulo dei fumetti pubblicati sul supplemento domenicale dei giornali americani.

Questo significa che le tavole raccolte nel libro non sono unite da una vera e propria trama, e la continuità della serie è data dagli avvenimenti politici americani, che vengono citati con grande abbondanza - non solo quindi per dar conto dell'impegno politico dell'autrice e dei personaggi che ha inventato.

Altro inconveniente portato dalle tavole autoconclusive è che l'autrice non si può permettere di dare al corteggiamento tra due lesbiche il respiro che ha nella realtà: quando si hanno solo sedici vignette a disposizione, non se ne possono dedicare più di due all'approccio - e la seconda, inevitabilmente, mostra la corteggiata (più esperta) che spiega alla corteggiante (meno esperta), che non si deve essere così dirette e frettolose, e che ci sono delle formalità da rispettare.

Poiché però la storia esige il 'lieto fine', la corteggiata è già innamorata, passa incredibilmente sopra a quest'evidente imperizia, e le due donne si mettono insieme - con il lettore avvertito che non deve pensare che in questo caso particolare il fumetto rispecchi la realtà.

Una caratteristica che può essere motivo di lode o biasimo a seconda delle lettrici e dei lettori è la tendenza didascalica di Alison Bechdel: molti dialoghi accennano ad interessanti questioni di teoria femminista o studi di genere, e sembrano stati concepiti più per dare alle lettrici ed ai lettori un'infarinatura su queste materie che per far progredire la storia.

Nella nostra società non sono le minoranze sessuali a potersi permettere il lusso di vivere in modo inconsapevole, e quindi il didascalismo di Alison Bechdel ha la sua utilità; a me, poco espert* di queste cose, è piaciuto, ma lettrici e lettori più esperti potrebbero preferire dialoghi di tipo letterario anziché pedagogico.

Il libro merita di essere letto, ed il titolo della sua edizione italiana, 'dykes', corrisponderebbe all'italiano 'lelle', in generale, ed a 'camioniste', in particolare. In America sono uscite diverse raccolte delle tavole di Alison Bechdel, ed il libro che sto recensendo è la traduzione dell'antologia "The Essential 'Dykes To Watch Out For' = L'essenziale di 'Lelle da tener d'occhio'".

Il sito ufficiale dell'autrice è: http://dykestowatchoutfor.com/ , ed ho notato che contiene anche della 'fan fiction', ovvero una storia ideata e disegnata da una fan - che però è stata convalidata dall'autrice e da lei pubblicata nel suo blog. Chi ha molto talento potrebbe provare anche l*i.

domenica 11 luglio 2010

Un'intervista di Judith Butler ad Haaretz, pubblicata il 20 Febbraio 2010

L'intervista è apparsa in inglese sul sito web del quotidiano israeliano Haaretz, occupando due pagine (1 e 2), ed è stata tradotta da Fedra. Buona lettura.
 
Judith Butler: "Da ebrea, mi è stato insegnato che era un imperativo etico parlare fuori dai denti".
 
La filosofa, professoressa universitaria ed autrice parla del genere, della disumanizzazione degli abitanti di Gaza, e di come i valori ebraici l'abbiano indotta a criticare le azioni dello stato d'Israele.
A cura di Udi Aloni.
 
[pagina 1]
 
La filosofa, professoressa universitaria ed autrice Judith Butler è arrivata questo mese [Febbraio 2010, nota di Fedra] in Israele, durante un viaggio in Cisgiordania, dove doveva tenere un seminario all'Università di Bir Zeit, visitare il teatro di Jenin, ed incontrarsi in privato con amici e studenti. Un luminare del suo campo, la Butler ha scelto di non visitare alcun'istituzione accademica nell'Israele vero e proprio. Nella conversazione che segue, tenuta a New York diversi mesi fa, la Butler parla del genere, della disumanizzazione degli abitanti di Gaza, e di come i valori ebraici l'abbiano indotta a criticare le azioni dello stato d'Israele.
 
In Israele la gente la conosce bene. Il suo nome è apparso perfino nel popolare film Ha-Buah [La bolla - la tragica storia di una relazione omosessuale tra un ebreo israeliano ed un mussulmano palestinese].
 
[Ride] Sebbene disapprovassi l'uso del mio nome in quel contesto. Intendo dire, era molto buffo dire: "Non judithbutlerizzarmi!", ma "judithbutlerizzare" voleva dire dire qualcosa di assai negativo sugli uomini ed identificarsi con una forma di femminismo che era contro gli uomini. Ma non mi sono mai identificata con quella forma di femminismo. Non è il mio modo di essere. Non sono nota per questo. Sembra quindi che mi abbiano confuso con un'opinione radical-femminista, quella che uno attribuirebbe a Catharine MacKinnon o ad Andrea Dworkin, una modalità femminista completamente diversa. Non sto sempre mettendo in discussione chi è un uomo e chi non lo e - e sono un uomo io? Forse sono un uomo [ride]. Chiamami pure uomo. Sono molto più aperta sulle categorie di genere, ed il mio femminismo riguardava la sicurezza delle donne dalla violenza, l'aumento dell'alfabetismo, la diminuzione della povertà e maggiore eguaglianza. Non sono mai stata contro la categoria degli uomini.
 
Una bella poesia israeliana chiede: "Com'è che uno diventa Avot Yeshurun?" Avot Yeshurun era un poeta che ha creato scompiglio nella poesia israeliana. Vorrei chiedere, com'è che uno diventa Judith Butler - specialmente a proposito di Scambi di Genere, il libro che ha così turbato il discorso sul genere?
 
Lo sa, non sono sicuro di saperne dare un resoconto, e penso che turbi il genere in modo diverso, a seconda di come è recepito e tradotto. Per esempio, una delle prime recezioni [del libro] è stata in Germania, e lì, sembrava assai chiaro che i giovani volessero una politica che desse risalto alla capacità di agire, o qualcosa di affermativo che essi potessero creare o produrre. L'idea di performatività - che implicava far esistere delle categorie, oppure creare nuove realtà sociali - era molto eccitante, specialmente per i giovani che erano stanchi dei vecchi modelli di oppressione - anzi, proprio del modello con cui gli uomini opprimono le donne e gli etero i gay.
 
Sembrava che, se tu eri soggiogata, c'erano anche a tua disposizione delle forme di capacità di agire, e che tu non eri solo una vittima, e tu non eri solo oppressa, ma l'oppressione poteva essere la condizione che ti metteva in grado di avire. Certi tipi di risultati inattesi possono emergere dalla situazione di oppressione se hai le risorse ed un sostegno collettivo. Non è una risposta automatica, e non è una risposta necessaria. Ma è possibile. Penso che io inoltre abbia parlato a qualcosa che stava già accadendo nel movimento. Ho dato una formulazione teorica quello che era già stato impresso in me da fuori. Perciò non l'ho realizzato da solo. L'ho ricevuto da diverse risorse culturali e l'ho tradotto in un'altra lingua.
 
Dopo che sei diventata "Judith Butler", noi abbiamo iniziato a sentirti parlare di più degli ebrei e dei testi ebraici. La gente veniva per sentirti parlare del genere, e subito si trovavano di fronte a Gaza ed alla violenza divina. Sembrava come se tu avessi avuto una chiusura sul precedente argomento. C'è un collegemento, un continuo, o si tratta di una nuova fase?
 
Torniamo ancora più indietro. Sono sicuro di averle detto che cominciai ad interessarmi di filosofia quando avevo 14 anni, ed ero nei guai nella sinagoga. Il rabbino disse: "In classe sei troppo loquace. Tu ribatti, e non ti comporti bene. Devi venire a fare un corso individuale con me". Io dissi: "Ok! Grande!" Ero eccitata.
 
Egli disse: "Che vuoi studiare nel corso? Questa è la tua punizione. Ora devi studiare qualcosa seriamente". Pensai che che pensasse che io non ero seria. Gli spiegai che volevo leggere la teologia esistenzialista, concentrandomi su Martin Buber (non ho mai più abbandonato Martin Buber). Volevo indagare sulla questione se l'idealismo tedesco potesse essere collegato al nazionalsocialismo. La tradizione di Kant ed Hegel era in qualche modo responsabile delle origini del nazionalsocialismo? La mia terza domanda fu perché Spinoza fu scomunicato dalla sinagoga. Volevo sapere quello che era accaduto e se la sinagoga era nel giusto.
 
Adesso devo fare l'ebreo: qual era il rapporto dei suoi genitori con l'ebraismo?
 
I miei genitori erano ebrei praticanti. Mia madre crebbe in una sinagoga ortodossa e dopo la morte di mio nonno, ella passò ad una sinagoga conservatrice e poco dopo finì in una sinagoga riformata. Mio padre era sin dall'inizio nelle sinagoghe riformate.
 
Gli zii e le zie di mia madre furono tutti uccisi in Ungheria [durante l'Olocausto]. Mia nonna perse tutti i suoi parenti, salvo i due nipoti [figli di un fratello od una sorella, NdFedra] che vennero con lei nell'auto quando mia madre tornò nel 1938 per vedere chi poteva soccorrere. Fu importante per me. Sono andato alla scuola ebraica. Ma sono andata anche, dopo la scuola, a corsi speciali di etica ebraica perchè ero interessata ai dibattiti. Perciò non ho fatto solo il minimo indispensabile. Penso che per tutto il liceo io abbia continuato gli studi ebraici insieme con la mia istruzione nella scuola pubblica.
 
E mi ha mostrato le foto del Bar Mitzvah di suo figlio, come una buona orgogliosa Madre Ebrea ...
 
Così è stato così fin dall'inizio, non è che io sia arrivata in un posto in cui non ero mai stata prima. Nella mia giovinezza sono diventata molto scettica di un certo tipo di separatismo ebraico. Intendo dire, vedevo che gli ebrei stavano insieme solo tra loro; non si fidavano di nessuno. Se portavi qualcuno a casa, la prima domanda era: "E' ebreo o non è ebreo?". Poi sono entrata in una comunità lesbica all'università, postuniversità, scuola di specializzazione, e la prima cosa che chiedevano era: "Sei femminista o non sei femminista?", "Sei lesbica o non sei lesbica?", ed io pensavo: "Basta col separatismo!"
 
Sembrava lo stesso tipo di politica comunitaria poliziesca. Ti puoi fidare solo di chi è proprio come te, di coloro che hanno firmato un giuramento di fedeltà a quest'identità particolare. E' davvero ebreo costui? Forse non è così ebreo. Non so se è davvero ebreo, magari ha un antisemitismo interiorizzato. Questa persona è lesbica? Penso che forse ha avuto una relazione con un uomo. Che dice questo su quanto genuina era la sua identità? Pensavo di non poter vivere in un mondo in cui le identità vengono sottoposte ad un simile controllo poliziesco.
 
Ma, tornando all'altra sua domanda ... in "Scambi di genere" c'è un'intera discussione sulla melanconia. Qual è la condizione in cui non possiamo affliggerci per altri? Io pensai, in tutta la mia infanzia, che questa era una cosa che si stava chiedendo la stessa comunità ebraica. Ed era anche una questione a cui ero interessata quando venni a studiare in Germania. Il famoso libro di Mitscherlich sull'incapacità di provare il lutto, che era una critica della cultura tedesca postbellica, mi interessava davvero tanto.
 
Negli anni '70 ed '80, nella comunità gay e lesbica, mi divenne chiaro che molto spesso, quando s'interrompeva una relazione, una persona gay non sarebbe stata in grado di dirlo ai suoi genitori - genitori di lui o di lei. Perciò qui la gente passava per tutti i tipi di perdita emotiva che non erano pubblicamente riconosciuti, e che divennero acutissime durante la crisi dell'AIDS. Nei primissimi anni della crisi dell'AIDS, c'erano molti uomini gay che non erano in grado di rivelare che i loro amanti erano prima ammalati e poi morti. Non potevano andare all'ospedale a trovare il loro amante, non potevano chiamare i loro genitori e dir loro: "Ho appena perso l'amore della mia vita".
 
Questo è stato importantissimo per il mio pensiero in tutti gli anni '80 e '90. Ma è anche diventato importante per me quando ho cominciato a pensare alla guerra. Dopo l'11 Settembre, ero scioccata dal fatto che ci fosse un lutto pubblico per molte delle persone che sono morte negli attacchi al World Trade Center, lutto meno pubblico per quelli morti anell'attacco al Pntagono, nessun lutto pubblico per chi lavorava in nero al WTC, e, per moltissimo tempo, nessun riconoscimento pubblico delle famiglie e delle relazioni gay e lesbiche che sono state distrutte dalla perdita di uno dei partner nei bombardamenti. Poi siamo andati in guerra con grande rapidità, perché Bush aveva deciso che il tempo del lutto era finito. Penso che lo abbia detto dopo dieci giorni, che il tempo del lutto era finito ed era ora il tempo dell'azione. A quel punto abbiamo cominciato ad uccidere le popolazioni all'estero senza una chiara ragione. E le popolazioni su cui abbiamo riversato la nostra violenza erano popolazioni la cui immagine non ci è mai apparsa. Non abbiamo avuto nemmeno un necrologio di un trafiletto per loro. Non abbiamo mai udito nulla su quali vite erano state distrutte. E non lo udiamo ancora.
 
Mi sono poi spostata verso un diverso tipo di teoria, che chiede a che condizioni certe vite siano luttuabili ed altre non siano luttuabili o siano inluttuabili. Per me è chiaro che nel conflitto israelo-palestinese e nei conflitti violenti che sono accaduti negli ultimi anni, c'è una luttuabilità differenziale. Certe vite diventano luttuabili nella stampa israeliana, per esempio - assai luttuabili, ed assai valevoli - ed altre sono intese come inluttuabili perché sono intese come strumenti bellici, oppure fuori dal senso di appartenenza che rende la propria vita luttuabile. La questione della luttuabilità ha legato il mio lavoro sulla politica queer, specialmente la crisi dell'AIDS, con il mio lavoro più contemporaneo sulla guerra e sulla violenza, specialmente il lavoro su Israele-Palestina.
 
E' interessante, perché quando è iniziata la guerra di Gaza, non potei resistere a Tel Aviv. Ho visitato a lungo la Galilea. Ed improvvisamente ho capito che molti dei palestinesi morti a Gaza hanno delle famiglie qui, dei parenti che sono cittadini d'Israele. Quello che la gente non sapeva era che c'era un lutto di massa in Israele. Lutto per le famiglie morte a Gaza, un lutto dentro Israele, di cittadini d'Israele. E nessuno nel paese ne parlava, del lutto dentro Israele. Era scioccante.
 
Il governo israeliano ed i media hanno iniziato a dire che tutti coloro che erano stati feriti od uccisi a Gaza erano membri di Hamas; o che erano tutti usati nello sforzo bellico; che i palestinesi li avevano piazzati lì come bersagli, per dimostrare che gli israeliani avrebbero ucciso dei bambini, e che questo era in realtà parte dello sforzo bellico. A questo punto, ogni singolo essere vivente palestinese diventa uno strumento bellico. Stanno tutti, nella loro essenza, od in virtù dell'essere palestinesi, dichiarando guerra ad Israele o cercando la distruzione d'Israele.
 
Così tutte le vite palestinesi che sono uccise o ferite, non sono più intese come vite, non più intese come viventi, non più intese nemmeno come umane in modo riconoscibile, ma sono pezzi d'artiglieria. Gli stessi corpi sono pezzi d'artiglieria. E, ovviamente l'esempio estremo di ciò è il bombarolo suicida, che negli ultimi anni è diventato impopolare. Se questa figura si estende a tutta la popolazione palestinese, allora non c'è più alcuna popolazione umana vivente, e nessuno che viene ucciso lì è piangibile. Poiché ogni palestinese vivente è, per sua essenza, una dichiarazione di guerra, od una minaccia all'esistenza di Israele, od un puro pezzo d'artiglieria, materiale bellico. Sono stati trasformati, nell'immaginario bellico israeliano, in puri strumenti bellici.
 
Pertanto, quando un popolo che crede che un altro popolo è intenzionato a distruggerlo, e vede tutti i mezzi di distruzione uccisi, od un numero straordinario di mezzi di distruzione distrutti, è eccitato, perché pensa che questa distruzione stia acquistando e procurandogli la sicurezza, il benessere, la felicità.
 
E quello che è accaduto da una prospettiva esterna, dei media stranieri, è stato molto interessante per me. La stampa europea, quella statunitense, quella sudamericana, quella dell'Asia orientale, hanno tutte sollevato degli interrogativi sull'eccessiva violenza dell'attacco a Gaza. Era molto strano vedere come i media israeliani hanno sostenuto che la gente di fuori non capiva, che la gente di fuori era antisemita, che la gente di fuori stava incolpando Israele per essersi difeso quando essa stessa, se attaccata, farebbe proprio la stessa cosa.
 
Ma perché Israele-Palestina? Ha a che fare con la tua ebraicità?
 
Da ebrea, mi è stato insegnato che era un imperativo etico parlare fuori dai denti, e parlar fuori dai denti contro la violenza di stato arbitraria. Questo era parte di ciò che ho imparato quando ho studiato la Seconda Guerra Mondiale ed i campi di concentramento. C'erano quelli che avrebbero voluto e potuto parlare contro il razzismo e la violenza di stato, ed era imperativo che potessimo parlare apertamente. Non solo per gli ebrei, ma per qualsiasi popolo. C'era un'intera idea di giustizia sociale che emerse per me dalla considerazione del genocidio nazista.
 
Direi inoltre che quello che è diventato davvero dure per me è che se uno voleva criticare la violenza di stato israeliana - proprio perché da ebreo uno è tenuto a criticare la violenza di stato eccessiva ed il razzismo di stato - allora uno è in un'aporia, perché gli si dice che è o un ebreo con un antisemitismo interiorizzato, oppure sta facendo del vero e proprio antisemitismo. Eppure per me questo proviene da un certo ideale ebraico di giustizia sociale. Ed allora, come posso io assolvere al mio obbligo di ebrea di pronunciarmi contro un'ingiustizia quando, parlando contro l'ingiustizia statale e militare israeliana, sono accusata di non essere un'ebrea abbastanza buona oppure di essere un'ebrea dall'antisemitismo interiorizzato? Questa è l'aporia della mia situazione.
 
Mi lasci dire un'altra cosa sui valori ebraici. Ci sono due cose che ho preso dalla filosofia ebraica e dalla mia formazione ebraica che per me erano davvero importanti ... beh, ce ne sono molte. Per esempio, fare la shiva, ovvero esplicitare il lutto. Pensavo che fosse uno dei più bei rituali della mia giovinezza. Ci sono state diverse persone che sono morte nella mia giovinezza, e c'erano diversi momenti in cui comunità intere si riunivano per far sì che coloro che avevano sofferto perdite terribili venissero raccolti e riportati nella comunità e fosse dato loro un modo di dar nuovo valore alla vita. L'altra idea era che la vita è transitoria, e per questo, perché non c'è un mondo che verrà [l'ebraismo riformato da cui la Butler proviene infatti nega la risurrezione dei morti e ritiene facoltativa la credenza nell'immortalità dell'anima - NdFedra], poiché non abbiamo alcuna speranza in una redenzione finale, dobbiamo prenderci buona cura della vita nel qui ed ora. La vita va protetta. E' precaria. Potrei arrivare a dire anche che la vita precaria è, in un certo senso, un valore ebraico per me.
 
Ho capito qualcosa, attraverso il suo modo di pensare. Un classico errore che la gente faceva con "Scambi di genere" era la nozione che il corpo ed il linguaggio erano statici. Ma ogni cosa è in movimento dinamico e costante; non esiste mai l'originale. In un certo senso ho sentito la stessa cosa con la Diaspora e l'emancipazione. Nessuno dei due è statico. Nessuno è venuto prima dell'altro. La Diaspora, quando era statica, è diventata separatista, è diventata lo shtetl. E quando si è realizzata l'emancipazione, è diventata uno stato etnocratico; è diventata per giunta separatista, una ricostruzione del ghetto. Perciò forse la tensione tra i due, l'emancipazione e la Diaspora, senza scegliere tra l'uno o l'altro, è l'unico modo per tenerci alla larga dall'etnocentrismo. Penso che la mia idea non sia ancora compiutamente formulata. E' legata al modo in cui sentivo che mio nonno era aperto al linguaggio dell'esilio mentre allo stesso tempo era sempre legato alla terra. Rimanendo aperti ad entrambi, emancipazione e Diaspora, potremmo evitare di cadere nell'etnocentrismo.
 
Lei ha una tensione tra Diaspora ed emancipazione. Ma quello che ne penso è forse qualcosa un po' differente. Devo dire innanzitutto, che non penso che ci possa essere un'emancipazione attraverso la fondazione di uno stato che limita la cittadinanza nel modo in cui lo fa ora, sulla base della religione. Pertanto, dal mio punto di vista, ogni sforzo di mantenere l'idea di emancipazione quando non hai uno stato che offre eguali diritti di cittadinanza agli ebrei ed ai non-ebrei allo stesso modo, è fallito. E' fallito.
 
Ecco perché direi che ci dovrebbe essere il binazionalismo fin dall'inizio.
 
O magari anche il multinazionalismo. Magari anche un tipo di cittadinanza indipendente dalla religione, dalla razza, dall'etnia, eccetera. In ogni caso, il punto più importante è che ci sono quelli che palesemente credono che gli ebrei che non sono in Israele, che sono nella Galut [Esilio, NdFedra], debbono davvero ritornare - loro non sono ancora tornati, e pertanto non sono e non possono essere rappresentanti del popolo ebraico. Allora la questione è: che significa trasformare l'idea della Galut nella Diaspora? In altre parole, la Diaspora è un'altra tradizione, una che implica la dispersione senza ritorno. Sono assai critica di quest'idea del ritorno, e penso che il termine "Galut" assai spesso sminuisca le tradizioni della Diaspora all'interno dell'ebraismo.
 
Pensavo che se facessimo un film sul binazionalismo, la scena di apertura dovrebbe essere un incontro del "Primo Congresso Ebraico per il Binazionalismo". Potrebbe essere un incontro segreto in cui tutti noi discutiamo su chi vorremmo che fosse il nostro primo presidente, e gli altri lì mi mandano a scegliere lei - perché abbiamo bisogno di una donna, e dev'essere queer. Ma non solo queer, e non solo donna. Dev'essere la più importante filosofa ebrea d'oggi.
 
Ma, seriamente, lei lo sa, sarebbe stupefacente pensare a quali forme di partecipazione politica sarebbero tuttora possibili con un modello federale di governo. Come un'autorità federata per Palestina-Israele che fosse nei fatti governata da una forte costituzione che garantisse i diritti indipendentemente dall'estrazione culturale, dalla religione, dall'etnia, dalla razza, e dal resto. In un certo senso, il binazionalismo è una parte dell'iter che spiegherà che cosa deve accadere. Ed io sono del tutto d'accordo con lei che ci dev'essere un movimento culturale che superi l'odio e la paranoia e che tiri fuori la questione della coabitazione. Vivendo misti e diversi, accettando il tuo vicino, trovando modi di vivere insieme. E nessuna soluzione politica, di livello puramente procedurale, può avere successo se non c'è un'educazione bilingue, se non c'è modo di riorganizzare i vicinati, se non c'è modo di riorganizzare il territorio, abbattere il muro, accettare i vicini che ti ritrovi, ed accettare che ci sono delle profonde obbligazioni che emergono dall'essere così vicini ad un altro popolo.
 
Perciò concordo con lei. Ma penso che dobbiamo farla finita con l'idea che uno stato deve esprimere una nazione. E che se abbiamo uno stato binazionale, esprime due nazioni. Solo quando il binazionalismo decostruisce l'idea di una nazione noi possiamo sperare di pensare a ciò che uno stato od una comunità politica che davvero offrissero l'eguaglianza potrebbero essere. Non è più la questione dei "due popoli", nei termini posti da Martin Buber. C'è una straordinaria complessità e mescolanza tra le popolazioni ebraica e palestinese. Ci saranno quelli che dicono: "Ok, uno stato che esprime due identità culturali". No. Lo stato non deve occuparsi di esprimere un'identità culturale.
 
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Ma perché usiamo il termine "binazionalismo"? Per me è l'inizio di un processo, non la sua fine. Potremmo dire "multinazionalismo", oppure "soluzione ad uno stato solo". Perché preferiamo usare ora il termine "binazionalismo" anziché "uno stato"?
 
Penso che le gente abbia un ragionevole timore che una soluzione ad uno stato solo ratificherebbe l'attuale marginalizzazione ed impoverimento del popolo palestinese. Che la Palestina sarebbe costretta ad accettare un tipo di esistenza da Bantustan.
 
O viceversa, per gli ebrei.
 
Beh, gli ebrei avrebbero paura di perdere la maggioranza demografica se i diritti di voto venissero dati anche ai palestinesi. Penso che qui ci sia la fondamentale questione del "Chi è questo 'noi'? Chi siamo noi?". La questione del binazionalismo solleva la questione di chi è il "noi" che decide qual tipo di stato è il migliore per questa terra. Il "noi" dev'essere eterogeneo; dev'essere misto. Tutti coloro che sono qui hanno delle rivendicazioni - e le rivendicazioni sono variegate. Esse hanno ragioni di appartenenza legali e tradizionali che sono alquanto complicate. Perciò ognuno dev'essere aperto a questa complicazione.
 
Ora vorrei andare all'ultima parte della conversazione. Oltre tre anni fa, all'inizio della Seconda Guerra del Libano, Slavoj Žižek venne in Israele per tenere un discorso sul mio film Forgiveness [Perdono]. La Campagna per il Boicottaggio Accademico e Culturale d'Israele gli chiese di non venire al Festival Cinematografico di Gerusalemme. Dissero che avrei dovuto far proiettare il mio film - perché gli israeliani non dovrebbero boicottare Israele, ma chiesero a delle figure internazionali di boicottare il festival.
 
Žižek, che era il soggetto di uno dei film al festival, disse che non avrebbe parlato del film. Ma egli chiese: perché non sostenere l'opposizione in Israele parlando di Forgiveness? Loro risposero che avrebbe potuto sostenere l'opposizione, ma non in una sede ufficiale. Non sapeva che fare.
 
Žižek decise di chiederle consiglio. Se ben ricordo, la sua posizione allora era che era d'importanza capitale essere solidali con i colleghi che avevano scelto mezzi di resistenza non violenti, e che era un errore ricevere denaro dalle istituzioni culturali israeliane. Il suo consiglio a Žižek fu di parlare del film senza essere un ospite del festival. Egli restituì il denaro ed annunciò che non sarebbe stato un ospite. Non ci fu alcuna decisione sull'appoggiare o meno un boicottaggio, Per me, all'epoca, il concetto di boicottaggio culturale era una cosa scioccante, un concetto strano. Da allora il movimento è cresciuto molto, e so che ci avete pensato molto. Mi chiedo che cosa ne pensa lei ora, del Movimento per il Boicottaggio, la Distrazione, le Sanzioni (BDS), tre anni dopo quell'evento che creò confusione.
 
Penso che il movimento BDS abbia assunto diverse forme, ed è probabilmente importante distinguere tra esse. Direi che circa sei o sette anni fa c'era un'autentica confusione su ciò che veniva boicottato, su ciò che veniva chiamato "boicottaggio". C'erano alcune iniziative che sembravano dirette contro gli accademici israeliani, i cineasti israeliani, i produttori culturali, o gli artisti, che non distinguevano tra la loro cittadinanza e la loro partecipazione, attiva o passiva, nella politica dell'occupazione. Noi dobbiamo tenere in mente che il movimento BDS si è sempre concentrato sull'occupazione. Non è un referendum sul sionismo, e non prende una posizione esplicita sulla soluzione ad uno o due stati. Ed allora c'erano quelli che cercavano di distinguere tra il boicottare i singoli israeliani dal boicottare le istituzioni israeliane. Ma non è sempre facile sapere come fare la distinzione tra chi è un individuo e chi è un'istituzione. E penso che tante persone negli USA ed in Europa abbiano semplicemente ritirato il loro sostegno, pensando che fosse potenzialmente discriminatiorio boicottare gli individui oppure le istituzioni sulla base della cittadinanza, sebbene molti di coloro che erano riluttanti volevano proprio trovare un modo di sostenere una resistenza non-violenta all'occupazione.
 
Ma ora penso che sia diventato più possibile ed urgente riconsiderare la politica del BDS. Non è che siano cambiati i principi del BDS: non lo sono. Ma ora ci sono dei modi di pensare ad implementare il BDS che tengono in mente il fuoco principale: ogni evento, pratica od istituzione che cerca di normalizzare l'occupazione, o presuppone che la vita culturale "ordinaria" può continuare senza un'esplicita opposizione all'occupazione è essa stessa complice con l'occupazione.
 
Possiamo chiamarla, se vuole, complicità passiva. Ma il punto principale è sfidare quelle istituzioni che cercano di separare l'occupazione dalle altre attività culturali. L'idea è che non possiamo partecipare alle istituzioni culturali che agiscono come se non ci fosse l'occupazione o che si rifiutano di prendere una posizione chiara e forte contro l'occupazione e di dedicare le loro attività a disfarla. Perciò, con questo in mente, noi possiamo chiederci, che cosa significa impegnarsi in un boicottaggio? Sembra che, per quelli di noi che sono fuori, noi possiamo solo andare in un'istituzione israeliana, o ad un evento culturale israeliano, in modo da usare l'occasione per richiamare l'attenzione sulla brutalità e sull'ingiustizia dell'occupazione, ed articolare un'opposizione ad essa.
 
Penso che sia quello che ha fatto Naomi Klein, e penso che abbia aperto un'altra strada per interpretare i principi del BDS. Non posso più venire a Tel Aviv e parlare di genere, filosofia ebraica o Foucault, per quanto possa essere interessante per me; certo no è possibile prendere soldi da un'organizzazione od università od organizzazione culturale che non sia esplicitamente ed attivamente antioccupazione, che agisce come se gli eventi culturali all'interno dei confini israeliani non avvenissero sullo sfondo dell'occupazione, sullo sfondo dell'attacco e della continuazione dell'assedio a Gaza. E' questo sfondo non detto e violento della vita culturale "ordinaria" che deve diventare l'oggetto esplicito della produzione e della critica culturale e politica. Storicamente, non vedo altra scelta, perché sostenere lo status quo significa sostenere l'occupazione. Uno non può "mettere da parte" l'impoverimento radicale, la malnutrizione, i limiti alla mobilità, l'intimidazione e le molestie ai confini, e l'esercizio della violenza di stato sia a Gaza che in Cisgiordania e parlare d'altro in pubblico. Se uno dovesse parlare d'altro, allora uno è pubblicamente impegnato a produrre una sfera di discorso pubblico limitata che ha per scopo la repressione e, pertanto, la continuazione della violenza.
 
Ricordiamoci che la politica del boicottaggio non è solo una questione di "coscienza" per gli intellettuali di sinistra in Israele e fuori. Il punto del boicottaggio è produrre ed attuare un consenso internazionale che chieda allo stato d'Israele di rispettare il diritto internazionale. Il punto è insistere sul diritto all'autodeterminazione dei palestinesi, di por fine all'occupazione ed alla colonizzazione delle terre arabe, di smantellare il Muro che continua l'impossessamento illegale della terra palestinese, ed applicare diverse risoluzioni ONU che sono state sempre ignorate dallo stato israeliano, compresa la risoluzione ONU 194, che insiste sui diritti dei rifugiati del 1948.
 
Pertanto, un approccio al boicottaggio culturale in particolare dovrebbe essere uno che si oppone alla normalizzazione dell'occupazione in modo da portare dentro il discorso pubblico i principi fondamentali dell'ingiustizia in gioco. Ci sono molti modi per articolare questi principi, e questo è dove gli intellettuali sono senza dubbio politicamente obbligati a diventare innovativi, ad usare i mezzi culturali a nostra disposizione per compiere qualsiasi intervento noi possiamo.
 
Il punto non è soltanto quello di rifiutare i contatti e le forme di scambio monetario e culturale - sebbene alle volte siano assai importanti - ma semmai, in modo affermativo, dare il proprio sostegno al più forte movimento antiviolento contro l'occupazione che non solo sostiene il diritto internazionale, ma stabilendo scambi con i lavoratori culturali ed accademici palestinesi, coltivando il consenso internazionale sui diritti del popolo palestinese, ma anche alterando quel presupposto egemonico nei media globali per cui ogni critica d'Israele è implicitamente antidemocratica od antisemita.
 
Certo ha sempre fatto parte della miglior parte della tradizione intellettuale ebraica insistere sulla relazione etica verso il non-ebreo, l'estensione dell'eguaglianza e della giustizia, ed il rifiuto di tacere di fronte a gravi torti.
 
Voglio riferirle quello che Riham Barghouti, del BDS New York, mi ha detto. Ella disse che per lei BDS è un movimento per chiunque voglia la fine dell'occupazione, eguali diritti per i palestinesi del 1948 [ovvero, gli arabi israeliani - NdFedra], e la richiesta morale e legale del diritto al ritorno dei palestinesi. Ella suggerì che ogni persona interessata decidesse quanto dello spettro del BDS fosse pronta ad accettare. In altre parole, il sostegno del movimento di boicottaggio è una decisione continua, non categoriale. Solo, non diteci quali sono le nostre linee guida. Puoi essere d'accordo con i nostri principi, unirti al movimento, e decidere da te sui dettagli.
 
Certo, uno può immaginare un adesivo da automobile con la scritta: "Che parte della 'giustizia' non capisci?" E' certo importante che molti israeliani importanti abbiano iniziato ad accettare una parte dei principi del BDS, e questo può essere un modo per rendere parte dello sforzo di boicottaggio progressivamente più comprensibile. Ma potrebbe essere importante anche chiedere perché mai così tanti israeliani di sinistra abbiano dei problemi ad iniziare una politica di collaborazione con i palestinesi sul problema del boicottaggio, e perché le formulazioni palestinesi del boicottaggio non sono la base di uno sforzo comune? Dopotutto, il BDS ha invocato il boicottaggio fin dal 2005, è un movimento avviato ed in crescita, ed i principi fondamentali sono stati messi a punto.
 
Ogni israeliano può unirsi al movimento, e sarebbe senza dubbio bello che loro fossero in maggior contatto con i palestinesi di come lo sarebbero altrimenti. Il BDS fornisce la rubrica più potente per le azioni in cooperazione tra israeliani e palestinesi. Questo è senza dubbio sorprendente e paradossale per alcuni, ma mi colpisce come storicamente vero.
 
Per me è molto interessante che molto spesso gli israeliani con cui parlo dicono: "Non possiamo collaborare con i palestinesi perché non vogliono, e non li rimproveriamo per questo". Oppure: "Li metteremmo in una brutta situazione se li invitassimo alle nostre conferenze". Entrambe queste posizioni presumono l'occupazione come sfondo, ma non la attaccano direttamente. Infatti, questi tipi di posizione servono solo a guadagnare tempo, mentre è adesso che occorre far conoscere la nostra opposizione. Molto spesso queste asserzioni prendono la forma di una colpa autoparalizzante che di fatto impedisce loro di prendere una responsabilità attiva e produttiva contro l'occupazione. Talvolra mi sembra che facciano della polirica di boicottaggio una questione di coscienza morale, che è diversa da un impegno politico. Se è un problema morale, allora "io" come israeliano ho la responsabilità di oppormi a parole, di affondarmi nell'autoaccusa o di autoflagellarmi in pubblico e diventare un'icona morale. Ma questo tipo di soluzioni morali sono, io penso, fuori luogo. Esse continuano a fare dell'identità "israeliana" la base della posizione politica, che è un tipo di nazionalismo tacito. Forse il punto è opporsi all'ingiustizia manifesta in nome dei più ampi principi del diritto internazionale e dell'opposizione alla violenza di stato, dell'emancipazione politica ed economica del popolo palestinese. Se per caso sei israeliano, allora la tua posizione involontariamente mostra che gli israeliani possono prendere e prendono posizione in favore della giustizia, e questo non dovrebbe sorprenderti. Ma questo non la rende una posizione "israeliana".
 
Ma lasciatemi tornare alla questione se la politica di boicottaggio nuoce alle iniziative in collaborazione o ne apre la possibilità. Io scommetto che nel momento che lei, Udi, si esprime a favore di qualche strategia di boicottaggio, distrazione o sanzione, lei avrà molti collaboratori tra i palestinesi. Io penso che molte persone temano che il boicottaggio sia contro la collaborazione, ma nei fatti gli israeliani hanno il potere di creare enormi reti di collaborazione se loro concordano con l'usare il loro potere pubblico e culturale di opporsi all'occupazione con i più potenti mezzi non violenti a disposizione. Le cose cambiano nel momento in cui dici: "Non possiamo continuare ad agire come se fosse tutto normale".
 
Certo, anch'io vorrei davvero essere in grado di parlare di romanzi, film e filosofia, magari separatamente dalla politica. Sfortunatamente, ora questo non posso farlo in Israele. Non posso farlo finché l'occupazione non è messa in discussione attivamente e con successo. Il fatto è che non c'è possibilità di recarsi in Israele senza essere usato come esempio o del boicottaggio o dell'antiboicottaggio. Perciò, quando venni molti anni fa, ed il rettore dell'Università di Tel Aviv disse: "Quanto siamo fortunati! Judith Butler è venuta all'Università di Tel Aviv, un segno che lei non accetta il boicottaggio", io fui strumentalizzata contro il mio volere. E compresi che io non potevo funzionare nello spazio pubblico senza essere già definita nel dibattito sul boicottaggio. Perciò non c'è scampo. Uno può star zitto ed accettare lo status quo, oppure uno può prendere una posizione che cerca di metterlo in discussione.
 
Spero che un giorno ci siano diverse condizioni politiche che mi permettano di andar lì e parlare di Hegel, ma ora questo è impossibile. Sono ansiosa di andare ad insegnare a Bir Zeit in Febbraio [2010, NdFedra]. Ha una forte facoltà di studi di genere e femminili, e capisco che gli studenti sono interessati a discutere questioni di guerra ed analisi culturale. Inoltre, io chiaramente intendo imparare. Il boicottaggio non è solo a proposito di dire "no" - è anche un modo di dare una forma al proprio lavoro, di fare alleanze, e di insistere sulle norme internazionali di giustizia. Lavorare dalla parte del problema dell'occupazione è partecipare alla sua normalizzazione. Ed il modo in cui lavora la normalizzazione è quello di eclissare o distorcere quella realtà nel discorso pubblico. Pertanto, non si può essere neutrali.
 
Quindi, stiamo boicottando la normalizzazione.
 
Questo è ciò che stiamo boicottando. Siamo contro la normalizzazione. E tu sai che ci sono molte tattiche per danneggiare la normalizzazione dell'occupazione. Alcuni di noi saranno bene equipaggiati per intervenire con immagini e parole, ed altri continueranno le dimostrazioni ed altre forme di dichiarazione politica e culturale. Il problema non è quello che dice il tuo passaporto (se hai un passaporto), ma quello che fai. Noi stiamo parlando di quello che accade nella tua stessa attività. Sabota e contesta la normalizzazione dell'occupazione?
 
Lei ricorderà che nella dichiarazione di Toronto contro l'attenzione data a Tel Aviv nel festival cinematografico, era assai chiaro che noi non boicottavamo le persone, ma il ministro degli esteri israeliano tentò di sostenere che noi stavamo boicottando gli individui. Eppure la questione riguarda le istituzioni. A questo proposito, vorrei chiarire: lei non parlerà all'Università di Tel Aviv ... per sempre? Beh, non per sempre ...
 
Quando sarà una magnifica università binazionale! [ride]
 
Udi Aloni è uno scrittore e cineasta israelo-americano.