martedì 30 marzo 2010

Ad una ragazza che professa l'antipolitica

"Antipolitica" è chiamato il disprezzo assoluto per ogni forma di politica e di politici. Dopo uno scontro verbale con una ragazza con questo atteggiamento, le ho scritto una lettera che riporto quasi per intero (i riferimenti personali certo al pubblico non interessano).

(quote)

(...) Le dico che una delle mie signature preferite è questa frase attribuita a Groucho Marx: "Politics is the art of looking for trouble, misdiagnosing it, and applying the wrong remedies", ovvero: "La politica è l'arte di andare in cerca dei problemi, sbagliarne la diagnosi, ed adoperare i rimedi sbagliati".

Come lei vede, non ho un'opinione della politica molto migliore della sua, ma, come ho già detto, chi non si occupa di politica in prima persona lascia che siano gli altri a farlo - ed a proprio danno.

Un esempio che penso sia molto chiaro lo dà il mio palazzo: tutte le volte che mi dico che sono stanco e non vale la pena di andare all'assemblea di condominio, scopro il giorno dopo che i miei vicini hanno deciso delle spese che a me paiono inutili e che devo pagare comunque.

Meglio partecipare, dunque - almeno ho qualche probabilità che mi diano retta. E lo stesso vale per le elezioni a qualsiasi livello.

Un libro che potrei consigliarle, ma è piuttosto lungo, è "La società aperta e i suoi nemici" di Karl Popper, pubblicato in Italia da Armando.

Non intendo con questo convincerla a votare un partito piuttosto che un altro - anche perché Popper era un liberale, e quasi tutti i partiti italiani hanno ormai elementi di liberalismo nelle loro idee o nei loro programmi. Se legge il libro, la istruirà qualunque partito poi decida di votare od abbracciare.

Quello che vale la pena imparare del libro è che Popper ha voluto rovesciare il problema del potere: anziché chiedersi (come hanno fatto tutti i filosofi a partire almeno da Platone - senza scomodare la Bibbia) come fare in modo che al governo ci vada il migliore, occorre trovare invece il modo di cacciare i governanti incapaci o malvagi prima che facciano troppo danno - e magari senza ammazzarli.

Questa è la funzione della democrazia. Non c'è bisogno di avere un'ottima opinione della politica o dei politici per essere democratici, anzi. Ronald Reagan diceva che la politica è la seconda professione più antica del mondo, e somiglia tanto alla prima!

Le posso dire che all'interno di un partito politico (che è un ambiente molto competitivo) ognuno studia con molta attenzione i difetti dei propri compagni ed ha una memoria d'elefante per i loro errori. Chi dice che le donne sono pettegole e tramano nell'ombra non ha mai frequentato gli iscritti maschi ad un partito!

Allo stesso modo è bene che l'elettore tenga sempre d'occhio i politici di ambo i sessi che ha votato, per essere sicuro che non lo deludano, ed essere pronto a toglier loro la fiducia quando sbagliano.

Churchill diceva che la democrazia è il peggior sistema di governo - fatta eccezione per tutti gli altri. Mi piacerebbe che lei avesse questo atteggiamento verso la politica: non è per nulla entusiasmante (a meno che non si brami il potere), ma bisogna occuparsene in prima persona a scanso di guai.

E purtroppo, "eterna vigilanza è il prezzo della libertà", disse Wendell Phillips. Se lei conosce l'inglese, troverà molto interessante il brano completo che allego.

(unquote)

Il brano in questione è una voce del Dizionario Bartleby delle Citazioni; Wendell Philips era un abolizionista che tenne nel 1852 un discorso alla Società Antischiavistica del Massachussets dicendo, tra l'altro:

(quote)

Eterna vigilanza è il prezzo della libertà - ed il potere è rubare sempre dai tanti ai pochi (...). La mano a cui si affida il potere diventa (...) necessariamente la nemica del popolo. Solo con una continua sorveglianza si può impedire al democratico che ha una carica di indurirsi diventando un despota; solo con un'incessante agitazione un popolo può essere tenuto abbastanza attaccato ai principi da non lasciare che la libertà sia soffocata dalla prosperità materiale.

(unquote)

Come ho detto, non c'è bisogno di amare la politica per occuparsene.

giovedì 25 marzo 2010

Chametz & Crocefissi

http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3867580,00.html

La religione ebraica impone di tenere tutto ciò che è lievitato (chametz) alla larga dai propri beni a partire dalla vigilia di pasqua per tutti gli otto giorni seguenti.

Un detenuto israeliano di religione mussulmana ha chiesto alla Corte Suprema se si poteva fare eccezione per lui, e la risposta è stata che l'unica cosa che gli si poteva concedere era di tenere del pane lievitato nel suo armadietto e di mangiarlo con dignità (e discrezione) per non offendere i suoi compagni di cella ebrei.

La sentenza non mi piace per nulla, in quanto si può interpretare in questo modo: ogni anno l'ebreo che purifica la propria casa, la propria auto, la propria barca, il proprio ufficio, eccetera, dal chametz implicitamente dichiara il luogo reso kasher le-pesach (adatto alla pasqua) un luogo ebraico.

Infatti, la scappatoia a cui ricorre ogni anno chi non vuole o non può eseguire questa purificazione è quella di "vendere" il luogo che non verrà purificato ad un non-ebreo, in modo da sottrarlo a quest'obbligo religioso (la vendita non ha effetto per il diritto civile, e terminata la festività il bene torna anche dal punto di vista religioso di proprietà di chi lo ha venduto).

Il ragionamento della Corte Suprema israeliana è stato che il detenuto mussulmano che chiede di avere del chametz in cella durante la pasqua contesta implicitamente l'ebraicità del luogo di detenzione; e la risposta, che gli consentiva al massimo di tenere del pane nell'armadietto e di consumarlo con dignità e discrezione, indicava che in Israele soltanto lo spazio privato di una persona (il suo armadietto) ed i suoi momenti privati (il mangiare da solo) possono non essere ebraici - in quanto la regola è che in Israele gli spazi pubblici sono invece ebraici.

I compagni di cella ebrei non si sarebbero certo offesi vedendolo comportarsi da mussulmano; si sarebbero offesi perché lui, mangiando chametz, avrebbe "de-ebraizzato" uno spazio pubblico ebraico.

La sentenza non è stata unanime - il giudice Eliezer Rivlin ha espresso un'opinione di minoranza secondo cui la libertà di culto garantita dalle leggi israeliane imponeva di acconsentire alla richiesta del detenuto.

Si può confrontare questa sentenza con l'uso italiano di appendere un crocefisso negli edifici pubblici. Il crocefisso appeso ad una parete indica che il luogo è cristiano; nulla da eccepire se la parete è di un edificio privato, ma in un edificio pubblico significa affermare che quello spazio pubblico è cristiano, distinguendo inevitabilmente chi di quello spazio è condomino (i cristiani) e chi ne è semplicemente ospite (i non cristiani).

Se la legge impone che tutti gli edifici pubblici siano dotati di un crocefisso, questo significa proclamare che tutti gli spazi pubblici sono cristiani, e che non cristiani possono essere solo degli spazi privati.

La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha sancito che i crocefissi vanno rimossi, è stata ricevuta male in Italia proprio perché imponeva di "scristianizzare" gli spazi pubblici, cosa che a molte persone risultava inaccettabile, anche se tra loro molti non pregano e si comportano in modo meno cristiano di chi fa l'amore senza essere sposato (non sono un vescovo ed il mio parere perciò non conta, ma mi pare ben più grave affamare i bambini).

Ma voler mantenere la cristianità o l'ebraicità degli spazi pubblici significa imporre allo stato di discriminare le religioni e le persone a seconda della loro appartenenza religiosa. Lo stato italiano dovrebbe togliere i crocefissi dagli edifici pubblici, e quello israeliano rinunziare ad imporre la kashrut negli edifici medesimi.

martedì 23 marzo 2010

The Times of India e L'Unione Sarda

L’India è la più grande democrazia del mondo (oltre un miliardo di abitanti e 700 milioni di elettori), con una lunga storia ed un’antica civiltà, per cui amo leggere il suo giornale The Times of India via Internet; per rimanere informato su quello che accade nella mia isola, leggo L’Unione Sarda, sempre via Internet.

Ambo i giornali, per attrarre i lettori, fanno appello anche al loro interesse per il sesso, ma in modi molto diversi. Il sito web di The Times of India ha una rubrica fissa sull’argomento in cui vengono pubblicati numerosi articoli, ispirati o da ricerche scientifiche oppure dall’iniziativa dei giornalisti che corroborano i loro “ricettari” con interviste sulla vita di coppia delle persone di ambo i sessi; L’Unione Sarda invece ha la sua galleria di foto provocanti sempre aggiornata.

Vorrei fare notare che anche chi, come me, ritiene esagerata una rubrica fissa dedicata al sesso, ammette che un articolo che si ispira ad una ricerca scientifica rende omaggio all’intelligenza di chi l’ha condotta - e dei lettori del giornale, che sono invitati a rifletterci su, perché non tutte le ricerche sono attendibili.

Ed che intervistare delle persone significa renderle protagoniste di una breve storia, dando loro l’opportunità di emergere come soggetti e non come oggetti (ci vorrebbe però l’occhio di una donna per capire fino a che punto le donne sanno approfittarne). Non si può dire altrettanto di una galleria di foto provocanti: chi vi appare, più che protagonista, è vittima di chi la guarda, e chi la guarda non riflette certo!

Inoltre, il lettore straniero che legge la rubrica del Times of India pensa: “Toh, gli indiani di ambo i sessi vogliono tornare a godersi la vita come i loro antenati.” Invece, le gallerie di foto provocanti fanno pensare al non sardo che le vede che i sardi (maschi) sono dei suini a due gambe.

Oltretutto, il sito del L’Unione Sarda è ospitato da quello de Il Sole 24 Ore, e viene il tremendo sospetto che a L’Unione Sarda tocchi ospitare contenuti che non potrebbero apparire sul paludato e culturalmente sofisticato giornale della Confindustria senza fargli perdere prestigio.

Siamo ancora una volta la fogna del Continente. Almeno una volta ci mandavano persone come gli ebrei di Roma od il La Marmora, che ci hanno educato.

venerdì 19 marzo 2010

Mindfulness

[1] David J. Wallin, Psicoterapia e teoria dell'attaccamento, il Mulino 2009

[2] http://en.wikipedia.org/wiki/Mindfulness_(Buddhism)

[3] http://en.wikipedia.org/wiki/Mindfulness_(psychology)

Il libro [1] è molto interessante per il modo in cui riassume la Teoria dell'Attaccamento iniziata da John Bowlby e Mary Ainsworth, e ne presenta le applicazioni terapeutiche.

Debbo purtroppo dissentire dal suo tentativo di inserire la mindfulness (parola inglese con cui si rendono il sanscrito smriti ed il pali sati - concetti buddisti che vengono spiegati in [2]) tra i metodi e gli obbiettivi terapeutici.

Infatti la mindfulness esige di avere verso la vita un atteggiamento disinteressato e molto simile a quello della contemplazione estetica dell'opera d'arte - perché se l'opera d'arte merita questo nome, comunica la sua bellezza anche a chi ne ignora lo sfondo storico e culturale.

Allo stesso modo la mindfulness esige di vivere ogni attimo per se stesso, apprezzandolo senza giudicarlo, senza ricollegarlo al proprio passato, senza valutarne la coerenza con il proprio modo di vivere, e senza chiedersi a che cosa porterà nel futuro.

Anzi, ad un livello più profondo, la mindfulness esige di rendersi conto che,  come "il proprio modo di vivere" è una scelta, ed il "futuro" dipende da quello che vogliamo, così il nostro "passato" è frutto non delle nostre esperienze, ma di ciò che significano per noi ora; ma se tutto quello che noi siamo può essere in ogni momento rimesso in discussione, allora il nostro , cioè la nostra personalità, è permanente solo per convenzione.

E' considerato normale che in una società per azioni i soci cambino continuamente - perché chi vende le azioni smette di essere socio, e chi le compra lo diventa - ma la società appare sempre la stessa. La mindfulness impone di comprendere che la nostra personalità cambia allo stesso modo perché idee, ricordi, progetti - tutto quello che ci fa distinguere dalle altre persone - in realtà continua a mutare.

Il problema è che chi si rivolge ad un terapeuta lo fa perché la mindfulness non gli è possibile. Non può vivere la vita in modo disinteressato perché alcuni bisogni essenziali non sono stati soddisfatti, e non può che chiedersi che cosa gli permetterà di soddisfarli; questo paziente concepisce la terapia come un allenamento sportivo - serve a massimizzare l'efficacia del gesto atletico ed a minimizzare ciò che ostacola il successo in gara.

Una terapia volta alla mindfulness con un paziente simile deve partire demolendo quest'atteggiamento - ed il terapeuta deve anche chiedersi se questa demolizione è giusta, perché per quanto coartata sia questa vita, spesso è l'unica che il paziente può vivere.

Inoltre, esistono vocazioni (preferisco l'espressione inglese "walks of life = cammini di vita") assolutamente incompatibili con la mindfulness - l'esempio più evidente è la politica. L'uomo politico non può separare l'attimo che sta vivendo dalla storia che lo ha portato ad esso, non può non chiedersi quali ne saranno le conseguenze (per sé e per chi lo ha votato), non può non chiedersi se quello che sta facendo è coerente con l'immagine che ha di se stesso e del suo partito.

Se la politica spesso degenera in demagogia, è perché il rifiuto della mindfulness che le è proprio può contagiare le persone che la praticano, con conseguenze terrificanti: una ricostruzione della storia tra le molte possibili diventa l'unica ricostruzione ammessa; non si riconosce alle persone la libertà di evolversi, ma si pretende di incasellarle; non si permette ad ognuno di agire liberamente (purché non nuoccia al prossimo) ma si pretende che ogni atto dia il suo contributo alla causa.

La diffidenza che spesso suscita la politica ha una sua motivazione nell'essere una delle poche professioni in cui le difficoltà di mindfulness sono paradossalmente un vantaggio e non un danno - cosa che attira persone poco raccomandabili.

Per fortuna, spesso l'incapacità di mindfulness riguarda solo alcuni ambiti della vita - ma se il paziente entra in terapia, sono tragicamente i più importanti per lui. Chi collega la mindfulness all'esperienza estetica può amaramente riassumere la sua situazione dicendo che se la sua vita fosse bella come la Gioconda, potrebbe anche farne oggetto di mindfulness; ma non è nemmeno la Vittoria di Samotracia, che per quanto mutila ispira chi la contempla.

Esistono modi di promuovere la mindfulness senza demolire aggressivamente gli atteggiamenti che le si oppongono - tentazione di molti terapeuti? Il libro cita, a pagina 237, Lev Vygotskij, che diceva
Nel gioco il bambino è sempre al di sopra della sua propria età, al di sopra del suo comportamento quotidiano; nel gioco è come se fosse di una testa più alto di se stesso.
Credo che anche per l'adulto valga questa considerazione: quando si "gioca", ovvero si agisce senza doversi preoccupare del risultato o delle conseguenze, si può "cogliere l'attimo" raggiungendo la mindfulness.

Per le persone che hanno seri problemi relazionali, un social network può essere l'ambito in cui si "gioca". Da una parte questo motiva la diffidenza di chi avverte che molte persone in Internet sembrano assai migliori di come appaiono faccia a faccia, anche quando non coltivano l'insincerità, dall'altra può essere un'opportunità di crescita per chi frequenta il network.

Una terapia potrebbe essere un altro luogo in cui "giocare", in quanto transfert e controtransfert costituiscono una relazione in cui è vietato pensare ad un risultato. Purtroppo, non riesco a non pensare ad una terapia come ad un semplice gioco - il paziente deve avere un fine da raggiungere e sulla base di quel fine valutare i progressi della terapia, altrimenti è senza difesa contro terapeuti poco competenti e poco scrupolosi.

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martedì 16 marzo 2010

La cultura ci fa ricchi

http://uninews.unicredit.it/it/articoli/page.php?id=12097


Come ho scritto altrove, l'unico modo di combattere razzismo e familismo (che sono in Italia due facce della stessa medaglia) è favorire lo sviluppo dell'economia della conoscenza - perché i "memi" non sono ereditabili, e soltanto il talento aiuta a farne buon uso.

La pagina web che cito presenta un'iniziativa del gruppo Unicredit dal titolo significativo "La cultura ci fa ricchi", che spinge in questa direzione; ed a leggere la pagina, tutta la cultura ha questa potenzialità, non solo quella "di consumo".

Un pregiudizio che in Italia è nato con il regime fascista, e che non è stato ancora abbandonato, è che la ricerca debba essere divisa in "pura" ed "applicata", termini che però nella mente di molti significano "sprecona" e "rimunerativa".

Il problema è che la ricerca è come l'amore: non puoi predeterminarli. Quella che sembra al suo nascere una "masturbazione intellettuale" può rivelarsi uno strumento potente per capire il mondo, delle idee o della natura, specialmente se viene lasciata libera di intrecciare rapporti con altre teorie.

Ed a quel punto, spesso arriva la rimunerazione. Non è ovviamente garantita, ma i paesi che dedicano più risorse alla ricerca pura sono anche quelli in cui i progressi delle scienze applicate migliorano di più il tenore di vita dei loro abitanti.

Allo stesso modo, chi ha più amici ha normalmente una vita familiare migliore di chi ne ha di meno.

Quello che vale per la ricerca in particolare vale per la cultura in generale: la cultura arricchisce le persone e le nazioni soprattutto quando viene perseguita senza attendersi un ritorno economico immediato.

Certo, esistono persone che creano solo per guadagnare denaro, esattamente come ci sono persone che si sposano per denaro. Ma in quest'ultimo caso l'erroneità dell'atteggiamento è più evidente alla maggior parte delle persone.

Eppure sposarsi per denaro è frutto della stessa mentalità terragna che divide tutte le cose in utili, inutili e dannose, in ogni cosa (anche nell'orgasmo) vuol vedere il suo tornaconto, e vuole ora dirigere la cultura e la ricerca verso il guadagno come una volta voleva asservire i sentimenti all'accumulazione del patrimonio.

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mercoledì 10 marzo 2010

Strategie evolutive stabili e religioni

Nel film "A Beautiful Mind" si narra la storia del matematico americano John Nash, che nel 1950 dimostrò un teorema con il suo nome diventato uno dei pilastri della teoria dei giochi.

Da quel teorema il biologo John Maynard Smith trasse nel 1973 la nozione di "strategia evolutiva stabile", che si può riassumere così: una strategia è evolutivamente stabile se due giocatori che la praticano, quando giocano insieme, ottengono un tornaconto almeno pari a quello che ottengono giocando con giocatori che praticano altre strategie.

Una spiegazione ancora più semplice vale quando non ci sono punti da totalizzare, ma l'alternativa è tra vittoria, sconfitta e pareggio: chi gioca con una strategia evolutivamente stabile nel peggiore dei casi pareggia, ma non viene mai sconfitto.

Questo significa che le strategie evolutive stabili tendono a diffondersi tra tutti i partecipanti ad un "gioco"; e se le strategie evolutive stabili sono più di una, possono nascere dei "campionati" distinti dalle diverse strategie evolutive stabili adottate dai giocatori.

Un esempio semplice è la mano da tenere durante la guida: chi guida a destra preferisce che tutti tengano la destra come lui; e se incontra uno che guida contromano, rischia un frontale. Idem per chi tiene la sinistra.

Tenere la destra o la sinistra sono due strategie evolutive stabili, che però sono incompatibili tra loro - e perciò ci sono paesi che impongono di guidare a destra ed altri che impongono di guidare a sinistra.

Non in tutti i "giochi" ci sono strategie evolutive stabili (un esempio comune è la morra cinese, detta anche "carta, forbice, sasso"), e l'introduzione di una nuova strategia può togliere ad altre la qualifica di "evolutivamente stabili".

Prima ho mostrato che anche la mano da tenere nella guida può essere considerata la strategia di un gioco; anche le religioni, intese come insiemi di norme, sono strategie di un gioco.

(continua)

domenica 7 marzo 2010

Demografia falso problema

Il post rimarrà per il momento incompiuto. Quello che tento di dire è che mi sono trovato di fronte ad una persona che mi ha offeso (le ho poi risposto per le rime) perché non avevo a suo avviso tenuto conto del fatto che "fanno più figli di noi".

Nel fuoco della polemica il soggetto della frase si è perso, e non si capisce esattamente se costei alludeva agli stranieri immigrati od agli stranieri in genere; non mi è parso il caso di chiedere spiegazioni, ma penso che sia opportuno chiarire il mio pensiero.

I biologi distinguono le specie viventi in "strateghe-r" e "strateghe-K". Le "strateghe-r" cercano di procreare il più possibile fino ad esaurire le risorse naturali disponibili; le "strateghe-K" sono più prudenti, e puntano sulla qualità e non sulla quantità della prole.

Quando l'uomo era cacciatore e raccoglitore, praticava la "strategia-K": le tribù superstiti di cacciatori e raccoglitori praticano un rigoroso controllo delle nascite ed addestrano i loro figli e figlie al meglio per sopravvivere in un ambiente in cui nulla è scontato.

L'agricoltura ha fatto dell'uomo uno "stratega-r": per impugnare una zappa non c'è bisogno dell'abilità di chi tira con l'arco, e per irrigare un terreno non c'è bisogno di essere più astuti delle piante che si vogliono coltivare. Ma di questa manodopera così dequalificata l'agricoltura ha un enorme bisogno, innescando un circolo vizioso, per cui, più manodopera c'è, più cibo si produce; ma più manodopera c'è, di più cibo si ha bisogno.

Se non è possibile aumentare la produttività dei terreni (perché la rivoluzione industriale arriverà fra molti secoli), l'unico modo per aumentare la produzione di cibo è acquisire nuovi terreni - dissodandoli oppure conquistandoli.

Per cui, le società agricole sono molto bellicose (anche quando non vogliono invadere il terreno altrui, devono comunque difendersi da chi vuole impadronirsi del loro) e molto prolifiche. In una società agricola i figli sono letteralmente una ricchezza.

Ma nelle società agricole, finché la crescita della popolazione non esaurisce le risorse del territorio, si può produrre abbastanza cibo da mantenere anche chi non lo procura; questo ha fatto nascere una classe di sacerdoti prima ed intellettuali poi, che hanno avviato il progresso culturale e tecnico fino a portare alle società industriali e postindustriali, in cui basta meno del 2% delle persone a produrre cibo sufficiente per il 100% - se molte persone al mondo soffrono ancora la fame, non è perché il cibo è insufficiente, ma perché è mal distribuito.

A questo punto la prolificità non è più necessaria - in molte colture le macchine agricole sostituiscono vantaggiosamente i braccianti, e quello che ora un bambino deve temere non è di non trovare abbastanza terra da lavorare, ma di non essere abbastanza intelligente e preparato per tenere almeno il passo con i suoi pari.

Nella società attuale la strategia migliore è di nuovo la "strategia-K": pochi figli e ben preparati, perché nella giungla che è la moderna società le belve più feroci hanno due gambe e parlano anziché ruggire.

Gli abitanti di molti paesi mussulmani sono giunti alla medesima conclusione, incoraggiati oltretutto dal fatto che l'islam non si è mai opposto al controllo delle nascite, ed in questi paesi la natalità è ormai a livelli europei od addirittura italiani.

A questo punto, preoccuparsi della prolificità degli stranieri in confronto a quella degli italiani è o una grande sciocchezza, oppure un sintomo preoccupante.

Se l'Italia fosse un paese evoluto come gli USA, sarebbe una grande sciocchezza. Gli americani non si sono mai preoccupati di queste quisquilie, perché sono una società fortemente meritocratica - e sono convinti che da loro una persona riesce ad avere solo in proporzione di quello che riesce a dare, per cui non può mai capitare che nel loro paese, come dicono in Sardegna, "si stia al mondo solo perché c'è posto".

Certo, quest'ideale andrebbe moderato dall'attenzione verso chi è nel bisogno, ma rende comunque superfluo temere di venire invasi da maree di inetti, la cui unica forza sarà la prolificità.

L'Italia però non è un paese evoluto, anzi, è in via di involuzione. Formalmente, siamo un paese postindustriale; in realtà noi siamo un paese feudale in cui la ricchezza ed il rango sociale si ereditano. Quest'ereditarietà impigrisce le ultime generazioni, perché sanno di non poter aggiungere granché a ciò che hanno creato i loro avi, le rende più attente ad amministrare il proprio prestigio che a cogliere le opportunità, e le rende incapaci di agire con la decisione di chi si gioca ogni volta tutto.

La paura degli immigrati o degli stranieri (che in Italia è particolarmente elevata) non è che l'ultima reincarnazione della paura che il nobile di antico lignaggio ha del parvenu, paura proporzionale all'incapacità del primo di evolversi e superare le convenzioni sociali obsolete che lo ingessano.

Ed il timore di essere numericamente (e politicamente od elettoralmente) sopraffatti dagli immigrati corrisponde ai timori che i ceti più elevati manifestavano ogni volta che veniva allargato il suffragio - ed allora come ora è la dimostrazione del sentirsi incapaci di convincere i nuovi elettori della giustezza del proprio modo di vivere.

In altre parole: si sa di essere nel torto, e si fa di tutto per rimandare la resa dei conti. La democrazia in Italia non è servita a guarire il paese da queste paure, ma a spalmarle in tutto il popolo.

mercoledì 3 marzo 2010

Mater sodomiae


Leggendo il libro citato, ho scoperto una cosa di cui ho parlato scherzosamente su Facebook:

(quote)

Il libro “La sessualità degli italiani” (il Mulino) dice che noi siamo dietro a tutti i paesi evoluti, tranne che nei rapporti anali, nei quali vantiamo un primato plurisecolare. Peccato che gli autori del libro non si siano chiesti se c’è una correlazione tra questa peculiarità e l’anomalia Berlusconi.

(unquote)

Terminato il libro, credo di aver trovato nel suo ultimo paragrafo, alle pp. 305-306, la correlazione:

(quote)

Come mai il nostro paese si trova in testa a tutti gli altri per la diffusione dei rapporti eterosessuali anali, ha inventato una combinazione così originale fra bassissima fecondità e contraccezione tradizionale, mentre è in coda rispetto agli altri cambiamenti nella vita intima delle coppie? Alcune cause di questi paradossi sono specifiche. Così, ad esempio, la rapida affermazione, nel corso del Novecento, delle pratiche anali è stata sicuramente favorita da una lunga tradizione storica di quello che, per molti secoli, i francesi, gli inglesi e i tedeschi hanno chiamato il «vizio italiano», della pratica cioè degli uomini italiani di servirsi anche della back door delle loro compagne. Ma queste peculiarità hanno anche un’importante causa comune: le diseguaglianze di genere, che in Italia sono più forti che negli Stati Uniti o negli altri paesi dell’Europa centrosettentrionale. Se le donne italiane fanno minor uso della masturbazione di quelle di altri paesi, mentre accettano i rapporti anali più di loro, è perché hanno una minor forza di negoziazione nei rapporti intimi. Analogamente, se le coppie del nostro paese sono riuscite negli ultimi vent’anni ad avere un numero di figli minore di quelle degli altri paesi pur facendo meno uso della pillola e della spirale è perché questi metodi contraccettivi, che rendono le donne normalmente meno fertili, sono a gestione femminile, mentre il coito interrotto o il preservativo, che tali coppie continuano ad usare, lasciano l’ultima decisione nelle mani degli uomini.

(unquote)

Ritengo opportuno precisare che il libro riporta alcuni esempi di donne che amano il rapporto anale e ne godono, ma sembra che si tratti di esempi abbastanza rari; per la maggior parte delle donne la sodomia sembra una cosa che il loro uomo impone loro, e giustifica le considerazioni del paragrafo citato, nonché l'uso metaforico del verbo "inculare".

Come lasciano intendere gli autori, non è che le persone in orizzontale si comportino diversamente che in verticale. La sottomissione delle donne italiane a letto corrisponde a quella che subiscono nella società, e gli esempi più evidenti, anche perché avvengono per volontà di Berlusconi, si hanno nelle TV (di proprietà di Berlusconi o da lui controllate) e nelle liste del PDL (come sopra).

La correlazione tra l’essere l’Italia la madre della sodomia (così si esprimeva San Bernardino da Siena [1380-1444]) e l’essere essa l’unico paese d’Europa in cui Silvio Berlusconi abbia delle probabilità di successo politico prima ancora che elettorale sembra ora palese: siamo il paese europeo più antifemminista, e Berlusconi ci rappresenta a meraviglia anche in questo.

Se l’antisemitismo era l’arma di distrazione di massa del regime zarista, l’islamofobia sembra l’arma di distrazione di massa di Berlusconi. Come il regime zarista cercava di sobillare le masse contro dei fantomatici oppressori ebrei per distrarle dalla vera oppressione che stavano subendo, così molti sobillano le italiane contro l’antifemminismo che sarebbe irrimediabilmente intrinseco all’islam per distrarle da chi sera dopo sera le …

Lenin diceva che l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli, io dico che l’islamofobia è il femminismo delle imbecilli.

lunedì 1 marzo 2010

Gematrya ebraica ed 'Ilm al-Huruf araba

Leggendo il libro di Gabriele Mandel Khan "Alfabeto arabo. Stili, varianti e adattamenti calligrafici", pubblicato da Mondadori, ho scoperto che anche gli arabi, come gli ebrei, amano attribuire significati esoterici alle lettere dell'alfabeto, e la chiave per comprenderli sta nel valore numerico attribuito ad ogni lettera.

Gli ebrei chiamano quest'arte gematrya, parola che deriva probabilmente dal greco "geometria"; gli arabi la chiamano 'ilm al-huruf = scienza delle lettere (Mandel Khan precisa: "scienza dei segreti delle lettere"). Non conosco applicazioni arabe dell'arte, ma posso citarne una ebraica.

E' il proverbio: "Dove entra il vino esce il segreto". L'osservazione psicologica, in sé banale, si basa però sulla gematrya: "vino" in ebraico si dice "yayin" e si scrive יין. Sommando i valori numerici delle lettere (si ricordi che l'ebraico e l'arabo si scrivono da destra a sinistra, anche al computer) otteniamo: 10 + 10 + 50 = 70.

"Segreto" invece si dice "sod" e si scrive סוד. Sommando i valori numerici delle lettere otteniamo: 60 + 6 + 4 = 70.

Quindi, la gematrya rende numericamente equivalenti le parole "yayin = vino" e "sod = segreto", ed ha permesso all'autore del proverbio di osservare argutamente che chi riempie una persona di vino la svuota dei suoi segreti.

Vediamo l'elenco delle lettere dell'alfabeto ebraico, ognuna con il suo valore numerico:

  1. 0001 = א
  2. 0002 = ב
  3. ג = 0003
  4. ד = 0004
  5. ה = 0005
  6. ו = 0006
  7. ז = 0007
  8. ח = 0008
  9. ט = 0009
  10. י = 0010
  11. כ = 0020
  12. ל = 0030
  13. מ = 0040
  14. נ = 0050
  15. ס = 0060
  16. ע = 0070
  17. פ = 0080
  18. צ = 0090
  19. ק = 0100
  20. ר = 0200
  21. ש = 0300
  22. ת = 0400
Ora elenco le lettere dell'alfabeto arabo, con il loro valore numerico, nell'ordine dato nei dizionari:
  1. 0001 = ا
  2. 0002 = ب
  3. 0400 = ت
  4. 0500 = ث
  5. 0003 = ج
  6. 0008 = ح
  7. 0600 = خ
  8. 0004 = د
  9. 0700 = ذ
  10. 0200 = ر
  11. 0007 = ز
  12. 0060 = س
  13. 0300 = ش
  14. 0090 = ص
  15. 0800 = ض
  16. 0009 = ط
  17. 0900 = ظ
  18. 0070 = ع
  19. 1000 = غ
  20. 0080 = ف
  21. 0100 = ق
  22. 0020 = ك
  23. 0030 = ل
  24. 0040 = م
  25. 0050 = ن
  26. 0005 = ه
  27. 0006 = و
  28. 0010 = ى
Come potete vedere, al contrario che nell'alfabeto ebraico, l'ordine alfabetico arabo non coincide con quello del valore numerico delle lettere, anche perché i lessicografi hanno voluto accorpare le lettere di forma simile.

Adesso metto insieme le lettere ebraiche e quelle arabe col medesimo suono (o quasi). Noterete che anche il loro valore numerico è uguale.

  • 0001
    • א
    • ا
  • 0002
    • ב
    • ب
  • 0003
    • ג
    • ج
  • 0004
    • ד
    • د
  • 0005
    • ה
    • ه
  • 0006
    • ו
    • و
  • 0007
    • ז
    • ز
  • 0008
    • ח
    • ح
  • 0009
    • ט
    • ط
  • 0010
    • י
    • ى
  • 0020
    • כ
    • ك
  • 0030
    • ל
    • ل
  • 0040
    • מ
    • م
  • 0050
    • נ
    • ن
  • 0060
    • ס
    • س
  • 0070
    • ע
    • ع
  • 0080
    • פ
    • ف
  • 0090
    • צ
    • ص
  • 0100
    • ק
    • ق
  • 0200
    • ר
    • ر
  • 0300
    • ש
    • ش
  • 0400
    • ת
    • ت
  • 0500
    • (non ha equivalente nell'ebraico standard)
    • ث
  • 0600
    • (non ha equivalente nell'ebraico standard)
    • خ
  • 0700
    • (non ha equivalente nell'ebraico standard)
    • ذ
  • 0800
    • (non ha equivalente nell'ebraico standard)
    • ض
  • 0900
    • (non ha equivalente nell'ebraico standard)
    • ظ
  • 1000
    • (non ha equivalente nell'ebraico standard)
    • غ

Nell'"ebraico standard" non ci sono lettere ebraiche equivalenti alle lettere arabe con valore numerico maggiore di 400; ma questa pagina mostra come gli ebrei che scrivevano testi in arabo con lettere ebraiche (capitava spesso nel mondo arabo, perché anche gli ebrei del luogo parlavano arabo, ma ritenevano sacre le lettere ebraiche e perciò usavano quelle per scrivere - per un motivo simile sono esistiti autori mussulmani bosniaci che nel 16° secolo scrivevano in lingua croata usando lettere arabe) avessero cercato in vari modi di ovviare alla lacuna, anche aggiungendo puntini alle lettere ebraiche standard per crearne di nuove.

La lista comparativa (questa piattaforma blog non gestisce le tabelle HTML, che mi avrebbero reso la vita più facile ed il post più chiaro) fa pensare che l''ilm al-huruf, se non è un'israiliyya vera e propria (esempio di influenza ebraica nell'islam, portata da convertiti ebrei che vi travasarono concetti della loro religione originaria), sia stata congegnata dopo che l'alfabeto arabo aveva assunto la sua forma attuale (sotto il regno di 'Abd al-Malik Ibn Marwan [685-705]) da persone che volevano che le lettere arabe mantenessero il valore numerico delle corrispondenti lettere ebraiche.

Termino il mio post con una lamentela nei confronti di chi ha reso Windows Vista versione italiana capace di gestire la compresenza di lettere ebraiche e latine nel medesimo documento, ma non di lettere ebraiche ed arabe. Non vi dico quanto mi ha fatto penare!



P. S.: Devo ringraziare Penias Hyos per aver osservato il 03/01/2015 che mi ero lasciato ingannare da un dizionario arabo che diceva che la nun ha, secondo l''ilm al-huruf, valore numerico 25 - in realtà è 50, pari dunque alla nun ebraica.